Università, stress e depressione stanno aumentando il tasso di abbandono

Per chi prosegue gli studi, gli anni universitari sono tradizionalmente considerati l’ultimo baluardo della spensieratezza. Terminati questi, comincia il mondo del lavoro, le sfide dell’età adulta e una vita fatta di “responsabilità e doveri”. Tutti elementi che determinano un carico emotivo spesso inedito fino a quel momento e che fanno fare i conti con il proprio equilibrio e benessere psicologico. O per lo meno, questo è quello che succedeva fino a qualche anno fa.

Salute mentale e tassi di abbandono

Oggi, gli studenti e le studentesse universitari registrano livelli di stress e preoccupazione importanti. L’impressione, è che in qualche modo si sia anticipata la perdita della spensieratezza che in passato era più che altro tipica degli anni a seguire.
Alcuni recenti dati dell’Istat, riportano che in Italia il 33% di chi frequenta l’Università soffre di ansia e il 27% di depressione. Vissuti che non solo si manifestano più di ieri, ma che determinano anche una messa in discussione del proprio futuro.

Secondo un’indagine condotta da Gallup nel 2023, ad esempio, il 35% degli studenti universitari americani ha dichiarato di aver valutato di abbandonare gli studi, con il 54% che imputa le motivazioni di tale volontà allo stress percepito e il 43% a motivi di salute mentale.
In Italia la situazione è meno marcata, ma comunque evidente e soprattutto mutevole rispetto alla regione di riferimento. Secondo un’analisi di Unimpresa, i tassi di abbandono universitario variano dal 15% medio nel Sud al 9,6% nell’area del Nord-Est.

Le motivazioni dell’abbandono

Per leggere adeguatamente questo scenario, le motivazioni legate al Covid non sono tuttavia sufficienti. È evidente che dopo il 2020 gli equilibri sono mutati, ma la trasformazione sembra essere cominciata prima.
Un dato interessante da questo punto di vista è quello relativo ai giovani tra i 18 e i 24 anni che ha lasciato precocemente gli studi: secondo i dati Istat, il numero era in aumento già nel 2018, passando al 14,5% contro il 13,8% del 2016.

Il mondo è in profondo cambiamento da ben prima del Covid, per quanto quest’ultimo abbia accelerato la trasformazione. I motivi che spingono i giovani ad abbandonare gli studi sono un crocevia di ragioni di natura psicologica, economica e sociale. Malessere, mancanza di fiducia nel futuro e nel sistema scolastico e universitario, perdita di interesse, volontà di anticipare l’entrata nel mondo del lavoro e così via.

Tuttavia, ritengo che ci sia una possibile ulteriore motivazione che spesso fatica ad emergere. Il futuro ha smesso di essere una speranza ed è diventato una minaccia. Con la conseguenza che si fatica ad affrontare e superare le difficoltà lungo il percorso perché si perde visione della meta. Perché devo fare dei sacrifici? Per cosa? Sembra essere la domanda sottesa. Lo sforzo prende senso nel momento in cui è orientato a un obiettivo. Se fine a se stesso, diventa pena.

Il ruolo della famiglia

A ciò, si aggiunge la trasformazione che sta avvenendo all’interno delle famiglie, nelle modalità di educazione e cura. Si tutelano i bambini e le bambine all’eccesso, negando loro l’esperienza dell’angoscia e della sofferenza. A partire dalla selezione edulcorata dei cartoni animati fino ad arrivare ai costanti premi di consolazione e alla protezione che si dà loro, prendendone sempre e comunque le parti.
Lungi dal generalizzare, stiamo tuttavia assistendo a una messa nella teca di bambini e ragazzi. Come scriveva ormai qualche anno fa Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro, che si occupa di psicologia per l’adolescente e il giovane adulto, stiamo crescendo i primi bambini senza le ginocchia sbucciate.

A tal proposito, esiste un detto che dice: meglio mettersi le pantofole che riempire di tappeti il mondo. Ecco, non solo i genitori finiscono spesso per non dotare i loro figli delle pantofole, ma rischiano anche di riempire per loro il mondo di tappeti. Con la conseguenza che tutto questo rischia di influenzare sia il loro percorso scolastico e universitario, sia le loro successive esperienze lavorative.
I lavoratori e lavoratrici che siamo, sono sì il prodotto dei nostri studi, ma anche delle esperienze fatte e – sebbene spesso lo si sottovaluti – del modo in cui siamo stati cresciuti in famiglia, specialmente in relazione a come si affrontano gli ostacoli.

Ecco allora che se l’educazione familiare muta nella direzione tratteggiata, il rischio è che i prossimi lavoratori e lavoratrici abbiano difficoltà proprio in quelle competenze trasversali oggi essenziali: gestione di stress e incertezza, capacità di fronteggiare errori e fallimenti, abilità di pianificare e definire le priorità, competenze sociali e intelligenza emotiva.
Per arginare questo rischio, le università hanno in potenziale un ruolo strategico: possono investire nella formazione non solo tecnica, ma anche trasversale. Con l’obiettivo di poter contribuire al futuro non solo professionale, ma anche umano del nostro Paese.

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