Lavoro, perché ci sentiamo esclusi per l’età che abbiamo

C’è una diversità che accomuna tutti e che sta progressivamente diventando motivo di conflitto, specie sul lavoro. Parliamo dell’età: un fattore identitario che sempre più spesso ci definisce “per difetto”, creando discriminazioni trasversali, reali o percepite.

Siamo, nel bene o nel male, l’età che abbiamo. Ma è proprio l’età a diventare motivo di frustrazione, per le opportunità perse o per quelle non ancora conquistate. Una lettura interessante sull’age gap è quella fornita dalla ricerca “Oltre le generazioni. Esperienze, relazioni, lavoro” realizzata dal Centro Studi di Valore D, in collaborazione con Behave Lab dell’Università degli Studi di Milano, coinvolgendo oltre 18.000 lavoratori e lavoratrici.

Quattro generazioni a confronto

L’indagine ha puntato i riflettori sulle quattro generazioni oggi presenti nelle aziende: Baby Boomer (nati tra il 1946 e il 1964), Gen X (tra il 1965 e il 1979), Millennial (tra il 1980 e il 1995) e Gen Z (tra il 1996 e il 2003), per comprenderne differenze e punti di contatto. In uno stesso ambiente lavorativo – in alcuni casi in uno stesso team -, convivono ragazzi e ragazze di 20 anni, alla prima esperienza di lavoro, e senior over 60, prossimi alla pensione. E tutti, si sentono ostacolati dall’anno di nascita.

I giovani, come noto, pur essendo spesso più formati accademicamente e con più esperienze di studio e lavoro all’estero, hanno contratti precari e vivono condizioni di forte vulnerabilità economica. A questo si aggiunge la diffidenza che il resto della popolazione aziendale dimostra nei loro confronti, proprio a causa dell’età. Sette persone su dieci, tra gli intervistati, percepiscono l’età come un ostacolo all’ottenimento di maggiori responsabilità. Così, si ritrovano a vivere in una zona d’ombra, situata tra l’ingresso in azienda e la piena partecipazione alla vita professionale.

Ciò che colpisce, però, è che nonostante siano molto distanti anagraficamente, anche i Baby Boomer vivono la stessa difficoltà: essendo alla fine della loro carriera, sostengono di essere esclusi da possibili promozioni su base meritocratica. Di conseguenza, sono spesso demotivati e disincantati. Anche la generazione X sostiene che l’età è un deterrente rispetto alla crescita professionale. «La tendenza della mia azienda – lamenta uno degli intervistati – è di considerare le persone della mia generazione come se non fossero più pensanti, attive, dinamiche e in grado di dare ancora contributi importanti».

Ma la condizione senza dubbio più ambigua è quella dei Millennial: da una parte, sono nell’età d’oro delle loro carriere e rivestono un ruolo centrale all’interno dei team, dall’altra scontano ancora una certa difficoltà nell’esprimere e far valere le proprie opinioni. «Mi pesa molto il fatto
che la mia esperienza professionale interessi poco a buona parte dei colleghi, essere considerato “junior” pur avendo anni di esperienza. Mi sento dire ancora: ‘devi fare la gavetta perchè sei giovane’…» – afferma un altro intervistato. Insomma, i Millennial ci sono, ma si sentono invisibili e, ancora una volta, marginalizzati.

Includere con le relazioni 

«Non può esserci davvero inclusione se le diversità continuano a essere viste in contrapposizione tra loro, come se il riconoscimento di un gruppo passasse attraverso l’esclusione di un altro. In chiave generazionale bisognerebbe comprendere i bisogni dei più junior quanto quelli dei più senior, interrogandosi, dove è possibile, su cosa accomuna queste persone pur nella loro diversità» – commenta Barbara Falcomer, direttrice generale di Valore D.

Scoprire che questa condizione è comune a molti, deve spingere quindi le organizzazioni a una riflessione profonda. La diversity legata all’età è una variabile che, se trascurata o mal gestita, potrebbe ostacolare le relazioni sociali che sono, a tutti gli effetti, l’anima di ogni realtà. Entrare in relazione significa, del resto, sentirsi liberi di chiedere consigli sul lavoro, collaborare allo sviluppo di competenze hard e soft e condividere momenti di supporto emotivo. Il tutto, facilitando la rottura di alcuni stereotipi.

Un esempio classico può essere quello del talento. Si è soliti associare questa definizione alle generazioni più giovani, ma se per talento si fa riferimento a persone brillanti, con capacità di adattamento, curiose ed entusiaste, non bisognerebbe porre limiti anagrafici. Dunque, anche iniziative legate allo sviluppo dei talenti, solitamente dedicate a Millennial e GenZ, andrebbero aperte a tutta la popolazione aziendale, includendo, anziché escludendo.

«Tutto questo – conclude Falcomer – significa tornare a mettere al centro il capitale sociale delle imprese, considerando le relazioni un elemento fondamentale per implementare azioni sulle diversità».

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