Sebbene la retribuzione sia un forte agente motivante – nonché un elemento imprescindibile per vivere – non è l’unica ragione per la quale si lavora o si sceglie un’azienda in virtù di un’altra. E spesso nemmeno la più determinante. Soprattutto oggi, nell’epoca della Great Resignation, del Quiet Quitting e dei Lazy Girl Job. Tutti fenomeni lavorativi e culturali che pongono l’attenzione su ciò che si vuole davvero.
Le ricerche ci dicono che le persone ambiscono a un buon bilanciamento vita lavoro, alla sicurezza economica, al benessere psicologico e all’inclusività. Tuttavia, è raro che ci spieghino perché ci si adopera nell’attività lavorativa. Ci chiariscono cosa gli individui vogliono, ma non perché lavorano. Al di là dell’ovvio e già citato motivo retributivo.
Per comprendere le ragioni profonde dell’attività che ognuno di noi svolge per gran parte del proprio tempo giornaliero, è necessario indagare il “contratto psicologico” che si stipula – spesso a propria insaputa. Un contratto che si somma a quello lavorativo e che determina lo “stare” in quella determinata organizzazione. Offrendo una prospettiva spesso sottovalutata per individuare soluzioni utili ad attrarre, trattenere, ingaggiare e motivare le proprie persone.
“La retribuzione era più che buona, i benefit anche, in azienda promuoviamo diverse iniziative per potenziare la flessibilità e allo stesso tempo garantire il senso di appartenenza, aveva possibilità di crescita o le opportunità – formative e non – non mancavano. Come mai se n’è andato?“ Un quadro – con i dovuti adattamenti – più che frequente. Molto spesso chi lavora in HR vede infatti le persone lasciare l’azienda, nonostante le tante azioni messe in campo per ingaggiarle. In questi casi, la ragione risiede proprio nel non aver colto – e dunque rispettato – le condizioni del “contratto psicologico”.
Appartenere
La volontà di sentirsi parte di un ecosistema, di essere riconosciuti come un elemento dell’insieme. Il desiderio di sentirsi accolti, accettati e inclusi. Chi è mosso dal desiderio di appartenere, ha bisogno di frequenti occasioni conviviali, di sentirsi membro del gruppo, di percepire l’azienda presente e viva nelle sue giornate. Casi in cui anche il brand e la reputation di un dato contesto organizzativo possono fare la differenza.
Lasciare un segno
Il desiderio di lasciare la propria impronta, che sia all’interno del contesto lavorativo o per la società. La volontà, dunque, di lasciare un’eredità. Un’aspirazione tipicamente riscontrabile in chi si avvia verso la fine della propria carriera professionale, ma che in realtà riguarda sempre di più anche le giovani generazioni.
In questo caso, è funzionale fare in modo che le proprie persone possano vedere l’impatto concreto del loro lavoro – tanto dentro quanto fuori l’azienda – e abbiano occasioni per fare la differenza.
Dare un senso
La volontà di dare un senso – attraverso il proprio lavoro – alla propria esistenza. Un desiderio che può far apparire chi vi si riconosce come eccessivamente legato alla propria carriera, non in grado di trovarsi e declinarsi al di fuori di essa. Tuttavia, “dare un senso” non dev’essere confuso con un’adesione totale tra vita e lavoro. È invece il desiderio di ritrovare nella propria sfera professionale i valori in cui si crede, per sentirsi interi e non doversi scindere. Da questo punto di vista, l’azienda può fare poco: il match c’è o non c’è.
Sentirsi unici
L’ambizione di distinguersi attraverso il proprio lavoro, di essere riconosciuti in virtù di esso. Il motore, in questo caso, non è tuttavia il bisogno di riconoscimento fine a se stesso. Come azienda, non si tratta solamente di dare feedback e opportunità di visibilità, quanto offrire occasioni nelle quali sia possibile spiccare come “unici” e, dunque, sentirsi indispensabili. Un bisogno spesso irrealizzabile dal momento che nessuno è insostituibile, ma a cui comunque si può rispondere continuando a offrire occasioni in cui la persona possa mettersi a disposizione nella logica del “se non io, chi?”
È evidente che a prescindere dal tipo di contratto psicologico che si instaura, le persone abbiano un legame molto più profondo con il loro lavoro di quanto spesso si pensi. Se si vuole davvero attrarre e trattenere le persone non sono sufficienti iniziative, benefit e azioni di well-being, è essenziale comprendere e cogliere le reali e più radicate leve motivazionali che spingono una persona a lavorare. Partendo da una banale quanto complessa domanda: e tu, perché lavori?
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