La testimonianza della vittima di violenza sessuale pesa nel processo, spesso in modo determinante. Ma per capire se il suo racconto è credibile è necessario, secondo la giurisprudenza, valutare le sue «caratteristiche personali, morali e intellettive» poi «l’assenza di motivi di rancore o di astio verso l’imputato». Per finire incide la spontaneità del racconto, la sua coerenza e concordanza anche con gli altri elementi acquisiti al processo.
Un margine ampio per gli avvocati della difesa degli indagati o degli imputati, per i magistrati, e per la stampa, che si traduce spesso in un gioco al massacro della donna che ha subìto violenza. Un rischio meglio noto con la più soft definizione di vittimizzazione secondaria. Di fatto una seconda violenza messa in atto da più protagonisti: dai media, troppo spesso impegnati a spettacolarizzare il dolore, ai professionisti della giustizia non sempre, come dimostrano le diverse condanne all’Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo, in grado di proteggere la parte debole nella partita a scacchi delle indagini e del processo.
Il caso di Palermo
Malgrado la Convenzione di Istambul, il manifesto di Venezia, il Codice della privacy e il Codice deontologico dei giornalisti, accade che si dia un nome e un cognome, come avvenuto nel caso dello stupro di gruppo di Palermo, alla ragazza aggredita dal branco.
Nomi e volti dai quali si parte per raccontare una vita, per individuare le attitudini vere o presunte che possono aver esposto la vittima alla violenza, che possono averla favorita. La strada è sempre la stessa: enfatizzare le vulnerabilità di una donna, se non per giustificare almeno per spiegare come si è arrivati all’atto di forza.
Palermo è solo l’ultima volta che il circo mediatico si è messo in moto, tanto da indurre la ragazza ad affidare il suo sfogo a Tik Tok. Il canale dei giovani, la loro ribalta per dare sfogo ad un’esuberanza che può diventare una colpa. Anche una passerella e una vetrina virtuale può essere letta come una provocazione, un invito carico di sottintesi. Di questo è stata “accusata” la ragazza aggredita sessualmente. Lei ha mostrato la sua forza per chiedere di non censurare il suo modo di vestire, di smettere i commenti tipici di chi si nasconde dietro la rete, che potrebbero portare delle ragazze anche al suicidio.
La pubblicazione dei dati
A segnalare al Consiglio di disciplina competente la pubblicazione da parte di un quotidiano on line, dei dati identificativi della ragazza e del video con lo “spettacolo” della violenza è l’ordine dei giornalisti, costretto, per l’ennesima volta, a richiamare i principi del manifesto di Venezia, e dell’articolo 5 bis del testo unico deontologico.
Un filmato che racconta la brutalità della violenza – scrive l’ordine dei giornalisti – lo scherno. Ma la banalità del male è sempre un’attrattiva per gli amanti del genere che, in migliaia, hanno cercato di accaparrarsi il cortometraggio dell’orrore, girato dai registi della violenza, che si sono sentiti prima e dopo protagonisti, tanto da vantarsi della popolarità acquistata, anche tra le ragazze.
Esiste, però, un rischio penale per chi cerca sui social il video dello stupro di gruppo ai danni di una 19enne a Palermo. Lo dice il Garante della Privacy, che mette in guardia sulle conseguenze della diffusione e condivisione dei dati personali della vittima e del filmato realizzato.
Una pubblicizzazione di nomi e fatti che ha dei risvolti penali. È ormai una regola ferma della giurisprudenza, il divieto di pubblicare i dati sensibili e identificativi che riguardano la vita sessuale delle persone e delle vittime di violenza la prova è che su tutte le sentenze in tema, è esplicitato l’obbligo di oscurare i dati. La regola del divieto di divulgare le generalità della vittima, trova un’eccezione solo nel caso in cui l’indicazione dei suoi dati sia essenziale per l’informazione, come dettato dalla Cassazione con un indirizzo costante, confermato da ultimo con la sentenza 4690/2021.
Gli obblighi della stampa
Mentre la via su cui si deve muovere chi fa informazione è quella tracciata dall’articolo 5-bis richiamato dall’ordine. Nei casi di femminicidio, violenza, molestie, discriminazioni e fatti di cronaca, che coinvolgono aspetti legati all’orientamento e all’identità sessuale, il giornalista deve evitare stereotipi di genere, espressioni e immagini lesive della dignità della persona. Ha l’obbligo di usare un linguaggio rispettoso, corretto e consapevole. Di stare all’essenzialità della notizia e rispettare la continenza. Di non alimentare la spettacolarizzazione della violenza. Di non usare espressioni, termini e immagini che sminuiscano la gravità del fatto commesso. Di assicurare, valutato l’interesse pubblico alla notizia, una narrazione rispettosa anche dei familiari delle persone coinvolte.
Principi mutuati da trattati sovranazionali ad iniziare da Istanbul, che restano comunque, troppo spesso recessivi, rispetto alle immutabili tre S che fanno audience: sesso, sangue, soldi.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.
Per scrivere alla redazione l’indirizzo è: alleyoop@ilsole24ore.com