Dalle izakaya giapponesi alle boulangerie francesi, passando per l’autenticità delle trattorie della vecchia Milano. C’è tutto questo e molto altro ancora nella cucina di Alice Yamanda, l’ideatrice di Pan e Katsusanderia, i due locali aperti a Milano con lo chef Yoji Tokuyoshi per portare in tavola una cucina senza confini. Un’idea di cultura alimentare che della diversità ha fatto un suo punto di forza.
«Essere autentica ma aperta alle influenze esterne: è lo spirito che mi ha guidata per tutta la vita ed è ciò che oggi porto nei miei locali» racconta Alice.
Tra multiculturalità e stereotipi
Mamma francese e papà giapponese, Alice è cresciuta tra New York e Osaka, per poi arrivare a Milano all’età di 6 anni e trascorrere buona parte della sua vita adulta all’estero, dalla Svizzera alla Spagna. «Non è stata semplice la mia adolescenza a Milano: il Giappone in quegli anni si conosceva poco e si ragionava molto per stereotipi. Io ero “la cinese” per via degli occhi a mandorla. Inoltre, avendo sempre frequentato le scuole francesi, non conoscevo nulla della cultura popolare italiana e questo mi rendeva “straniera” in ogni conversazione».
Eppure, Milano è una città che ha amato e che a oggi considera casa: «Sono una persona senza radici, ma se dovessi identificare un nido, allora quello è Milano». Ed è per questo che l’ha scelta come luogo d’elezione per avviare la sua carriera da giovane imprenditrice del settore della ristorazione. Un percorso a cui è arrivata dopo una laurea in finanza all’Università Bocconi e diversi anni passati a lavorare nell’industria della moda.
«L’esperienza più formativa è stata per Moncler: sono arrivata quando la società era stata appena quotata in Borsa, ho visto tutto di quel periodo e ho imparato moltissimo». Soprattutto, ha compreso che quel mondo non era poi così lontano da quella che era la sua più vera e grande passione: il cibo, appunto. «Nella moda bisogna unire creatività e management, regalando ai clienti non semplici capi, ma esperienze. La stessa cosa accade in un ristorante: le persone non vogliono solo calmare gli appetiti, cercano qualcosa in più».
Dalla moda alla ristorazione
Così, Alice ha deciso di fare il grande salto: è volta in Spagna, a Madrid, dove ha curato l’apertura dei locali della catena Big Mama. «Mi hanno scelta anche se non avevo esperienza del settore e questo è stato un grande insegnamento per me: bisogna creare occasioni, investire sulle passioni, non valutare le persone solo da ciò che è scritto in un cv» – afferma.
Da lì in poi, è storia. Incontra tramite suo padre lo chef Tokuyoshi, parlano di Giappone e di Francia, di ramen e di baguette, di come sia standardizzata una certa cucina nipponica in Italia, fatta di sushi e di poco altro, e di quanto altro ci sarebbe da far conoscere andando oltre gli stereotipi. Gli stessi che vedono la piccola isola dell’Oceano Pacifico come estremamente cara, mentre la parola chiave per Alice è «accessibilità», la stessa che ha voluto riportare nei suoi locali.
La nascita di Pan e Katsusanderia
«Pan è il laboratorio di panetteria che avevamo sempre sognato, un luogo in cui sentirsi a casa in ogni momento della giornata. La Katsusanderia, ovvero la nostra idea di cibo da strada giapponese, è arrivata mentre stavamo lavorando per aprire Pan. Non amo stare con le mani in mano così ho pensato di sviluppare un delivery a partire dalla bentoteca. Costo zero». Il risultato è stato positivo tanto che oggi la seconda attività, nata quasi per caso, è diventata strutturale, anche se al momento non sono previste nuove aperture in altre città.
Come molte altre imprese del settore, però, anche quelle guidate da Alice risentono della difficoltà nel reperire personale. «Cerchiamo disperatamente camerieri, ma troviamo pochissime persone disposte a fare questa professione. È un tema complesso: anzitutto, si ritiene che sia un lavoro di poco valore, mentre invece è importantissimo, perché chi serve ai tavoli rappresenta per il cliente l’intero ristorante; poi, c’è un problema legato all’equilibrio vita – lavoro e agli stipendi. È un tema strutturale: dovremmo cercare una nuova sostenibilità, dalle imprese ai clienti al capitale umano. Così come dovremmo investire molto di più in servizi di supporto alla genitorialità: io non ho figli, ma se li avessi fare impresa sarebbe difficilissimo. E questo è, ahimè, un problema prettamente italiano».
Dovremmo dare nuovo senso al lavoro, quindi, ridefinendone i paradigmi fondamentali. E anziché fuggire, provare a ricostruire. «Io lavoro 7 giorni su 7, più di 10 ore al giorno. Perché lo faccio? Perché nella cultura giapponese il lavoro è tutto: nasci per lavorare e lo fai perché il tuo lavoro non è fine a te stesso. Sai che se lavori sei importante per la comunità. E forse – conclude Alice – questo senso di comunità è il primo passo da cui ripartire».