Femminicidi, perché il nuovo disegno di legge non servirà a salvare le donne

Siamo solo al 15 di giugno e i femminicidi in questo 2023 sono già a quota 43, le donne uccise in totale sono 54. Quello di Giulia Tramontano, 29 anni, brutalmente assassinata dal compagno insieme al bimbo che portava in grembo, scuote fortemente l’opinione pubblica da giorni. Trentasette coltellate che a contarle sono un’enormità e poi il tentativo di bruciare il cadavere, per farlo sparire, le bugie e i depistaggi messi in atto da Alessandro Impagnatiello.  Neanche la politica vuole dare l’idea di rimanere indietro. E così, a poche ore dal crimine il Consiglio dei ministri  ha approvato un disegno di legge. Il testo – bisogna dirlo senza infingimenti – rappresenta l’ennesimo intervento legislativo, partorito dall’urgenza di dare risposte a un fenomeno ancora del tutto fuori controllo.

Gli obiettivi dichiarati dal disegno di legge
Il comunicato stampa che ha annunciato il decreto, approvato su proposta della ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella, del ministro dell’interno Matteo Piantedosi e del ministro della giustizia Carlo Nordio, appare una dichiarazione d’intenti: Con il provvedimento il Governo intende velocizzare le valutazioni preventive sui rischi; rendere più efficaci le azioni di protezione preventiva; rafforzare le misure contro la reiterazione dei reati a danno delle donne e la recidiva; migliorare la tutela complessiva delle vittime di violenza“. Buoni propositi, tanti.

Che fine ha fatto la Commissione sul femminicidio?
Per l’elaborazione della norma, l’esecutivo dice di essersi richiamato alle istanze emerse in sede di Osservatorio, nonché a quelle contenute nella relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio nonché su ogni forma di violenza di genere. Ed è proprio sulla Commissione che non può tacersi una verità, assai preoccupante: dall’insediamento di questo governo a oggi nulla è stato fatto. I lavori non sono mai partiti, si è anzi appesantita la macchina, rendendo quell’organo bicamerale. La questione non è di poco conto. I lavori svolti nelle precedenti legislature da quel collegio sono, infatti, l’esito di una indagine diffusa e capillare sul territorio che ha coinvolto largamente gli uffici giudiziari di questo Paese. Resta perciò l’urgenza che si riprendano audizioni e osservazione. Non si può pensare di rinunciare alla fotografia del dato che è strumento  imprescindibile, per chi affermi di volere combattere (o solo fronteggiare) il fenomeno.

L’arresto in flagranza differita. Un’occasione mancata e nessuna buona nuova
A leggere il testo ciò che attira l’attenzione è certamente l’introduzione dell’arresto in flagranza differita che apre alla possibilità che si consideri in stato di flagranza “colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica o di altra documentazione legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica o telematica, dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che l’arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto ore dal fatto”.

Il tema non è nuovo ed è di grande rilievo, in realtà. Di arresto differito e della necessità di superare la posizione della Corte di Cassazione (le Sezioni Unite con la sentenza n. 39131/16 del 24/11/2015 avevano stabilito che non possa “procedersi all’arresto in flagranza sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nella immediatezza del fatto”) aveva già parlato Fabio Roia, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, audito nel 2019 in Commissione Giustizia. Dello stesso avviso Marisa Scavo, Procuratrice della Repubblica aggiunta a Catania, alla guida di un pool preparatissimo su questo genere di reati.

Roia: “La norma sull’arresto differito risulta insufficiente”
Per capire meglio la portata del disegno di legge sul punto, Alley ha raggiunto proprio il presidente Roia il quale non ha mancato di manifestare le proprie perplessità. Il perché di un giudizio fortemente critico è tecnico, ma non solo: “La norma risulta insufficiente per le esigenze rappresentate. Consente l’arresto differito soltanto qualora vi sia la prova – di natura telematica o comunque documentale – della realizzazione della  condotta connessa ad attività persecutorie o alla violazione del divieto di avvicinamento alla vittima. Risulta di difficile applicazione per esempio per la fattispecie di cui all’art. 572 c.p – continua Roia, riferendosi ai maltrattamenti in famiglia –  per l’assenza di una prova di questo tipo”.

Lo scenario che con l’applicazione della norma si delineerebbe è chiarissimo, a parere del presidente che di violenza sulle donne è considerato uno dei massimi esperti in Italia: “Vengono lasciate scoperte situazioni dove la prova dell’avvenuta violazione o violenza si basa sul racconto della donna o, per esempio, su una certificazione medica. E’ il caso della parte lesa che si reca in ospedale dopo qualche ora dall’aggressione. L’evento costituisce l’ultimo atto di una condotta maltrattante ed è trascorso il tempo della “quasi flagranza”. Era preferibile – conclude il magistrato – prevedere che il Pubblico Ministero potesse disporre il fermo dell’uomo violento – sulla base di una gravità indiziaria – al di fuori dei casi di un pericolo di fuga”. Per Fabio Roia “l’obiettivo è evitare di mettere le donne in protezione attraverso la loro collocazione in case rifugio, dovendosi intervenire sulla libertà personale dell’uomo violento”.

La soddisfazione della maggioranza e le critiche dei centri antiviolenza
Il governo esce dal Consiglio dei ministri dicendosi soddisfatto per il ddl licenziato. Matteo Piantedosi pare avere trovato la soluzione a ogni problema: “Grazie alle nuove misure che verranno introdotte, magistratura e Forze dell’ordine potranno disporre di strumenti ancora più incisivi ed efficaci“. Il ministro mostra l’ottimismo di chi sottovaluta un fenomeno non emergenziale ma strutturale, che continua a costarci oltre cento vittime all’anno. E di segno contrario sono invece le reazioni di chi di violenza domestica si occupa tutti i giorni, nei centri che danno supporto e protezione alle vittime. Netta è la posizione di D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza. Antonella Veltri che presiede la rete definisce il ddl “un pacchetto presentato ancora una volta in risposta ad un’emergenza che cavalca l’onda emotiva dell’ultimo femminicidio”.

Pene aggravate e ammonimento rafforzato, i problemi aperti
Il disegno di legge dovrà ovviamente passare dalle Camere prima di diventare norma, verosimilmente non senza modifiche o aggiustamenti. A partire dall’articolo 1 che oggi dispone il rafforzamento delle misure in tema di ammonimento e di informazione alle vittime, ampliando i casi per cui il provvedimento del questore è applicabile: non più solo stalking ma anche “reati spia”, ovvero percosse, lesione personale, violenza sessuale, violenza privata, minaccia grave, atti persecutori, revenge porn, violazione di domicilio, danneggiamento. La pena sarà aggravata per crimini compiuti da chi è già stato ammonito, anche laddove la vittima sia diversa da quella che ha richiesto e ottenuto l’ammonimento. Con la reiterazione del reato si procederà d’ ufficio, al di là delle intenzioni della diretta interessata. Ma proprio su questi aspetti, la rete antiviolenza è compatta. Ancora la presidente di D.i.Re: “Ci preoccupano, e non poco, il rafforzamento dell’ammonimento e la convocazione in questura anche senza bisogno di denuncia da parte della donna, la prima misura perché espone ancor di più la donna al pericolo, la seconda perché non tiene conto della volontà della donna”.

Lanzoni (Pangea): “Il ddl risposta a reati già commessi, non previene femminicid”
L’articolo 2 interviene sulla sorveglianza speciale e, nell’ottica di un potenziamento delle misure di prevenzione, estende ai reati di violenza domestica specifiche disposizioni antimafia. Si rafforza anche il divieto di avvicinamento alle vittime – a non meno di 500 metri – come ai luoghi da esse frequentati. Ma la norma non convince le addette ai lavori, da nessun punto di vista la si guardi.  “Perché questo ddl viene ritenuto una risposta ai femminicidi? Di fatto è una risposta a un reato quando è già stato commesso. Non ci sono novità ma solo allargamenti di misure già esistenti come il braccialetto elettronico, di cui tra l’altro si fatica addirittura a trovare disponibilità perché non ce ne sono a sufficienza”. Così, Simona Lanzoni,  vicepresidente di Fondazione Pangea Onlus.

Invarianza finanziaria significa ancora ignorare la carenza cronica di risorse
Il testo detta anche misure in materia di formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, intervenendo nella direzione di una trattazione spedita degli affari in materia di violenza di genere e di violenza domestica. Ma la disposizione – tentando di agire sui tempi – finisce per limitarsi a rivedere i termini, imponendo al pubblico ministero di valutare, senza ritardo e comunque entro trenta giorni la sussistenza dei presupposti di applicazione delle misure cautelari. Il tutto, diciamolo, rischia di funzionare poco se solo guardiamo alla solita clausola di invarianza finanziaria, immancabile a chiudere anche questo provvedimento. Quanto potrà giovare l’ennesima accelerazione se permane la carenza delle risorse, se lo chiede Simona Lanzoni: “Stesso problema in termini di risorse a disposizione: si fa presto a parlare di accorciare i tempi per le indagini e di adeguare le misure cautelari ma se non ci sono le risorse chi ne monitora l’applicazione? Se pensiamo al caso di Giulia, ad esempio, le misure previste dal ddl non le sarebbero servite perché non aveva denunciato. Che vuol dire? Che questo ddl non tiene conto a monte della prevenzione ed è un’ulteriore risposta securitaria come hanno fatto tutti i precedenti governi in Italia: risposte parziali e ancora nessun intervento di prevenzione e protezione delle vittime. Abbiamo un piano strategico fermo da anni, quando verrà finanziato e reso operativo? Pensiamo alla sua applicazione invece che  agli annunci e alla misure dettate dall’enfasi del momento.” 

Serve un cambiamento culturale
Mancanza di investimenti, un piano antiviolenza bloccato, inesistenza di linee guida in grado di armonizzare il livello della risposta dei vari organi giudiziari. Anche questo è un profilo che resta di gravissimo impatto: a fronte di Procure virtuose ci sono altri organi che, a oggi, non danno prova di essere sufficientemente formati, che non sono in grado di affrontare e prendere in carico i casi di violenza nella maniera adeguata.
Il peso che il disegno di legge dà ai percorsi di recupero – nelle disposizioni in materia di sospensione condizionale della pena – desta altri dubbi e accende ancora critiche: “Siamo allertate e fortemente preoccupate per gli annunciati percorsi di recupero dei maltrattanti che aprono un futuro sconosciuto di reinserimento degli uomini autori di violenza sulla base di attività e trattamenti poco sperimentati”, è categorica Antonella Veltri che rimarca la differenza tra la prevenzione in senso giuridico e quella di cui parla la Convenzione di Istanbul: “La prevenzione che agiscono quotidianamente i Centri antiviolenza è cambiamento culturale e contrasto alla vittimizzazione istituzionale, che passa attraverso percorsi educativi per abbattere stereotipi e per promuovere libertà, non certo mettendo in mostra il dolore delle vittime, ma sostenendo gli interventi nelle scuole dei centri antiviolenza”.

Il vero limite del ddl: la causa della violenza rimane senza risposta
Andando a fondo di questo provvedimento del governo, c’è un punto che deve considerarsi centrale e che continua a rimanere fuori dal fascio di luce: la causa che è all’origine della violenza. “La proposta annunciata come rivolta a prevenire la violenza alle donne, diventa un insieme di misure volte a intervenire senza affrontare nelle sue radici il fenomeno”, Antonella Veltri boccia così, senza appello, anche l’ennesimo tentativo della politica, sgrammaticato almeno dal punto di vista della strategia. Pare insomma che si continui a mettere pezze su una questione che ha (già dal 2002,  secondo i dati dell’OMS) i tratti della strutturalità e della globalità.

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