Dall’armocromia tanto discussa della segretaria del Pd Elly Schlein al video virale della showgirl Melissa Satta (che accusa i suoi haters di sessismo e bullismo), e a ritroso ancora con il fastidio verso l’animo femminista di Chiara Ferragni durante Sanremo: solo questi esempi hanno scatenato un odio virale e sessista, ancora meglio misogino, su tutte le piattaforme social. Parliamo di hate speech (discorsi d’odio), un fenomeno che esattamente come altri etichettati con termini anglosassoni (vedi il ghosting), trova pochissimo spazio nella letteratura scientifica italiana quando rivolto verso le donne, ma moltissimo nella pratica sui feed di instagram.
La fame bulimica dell’odio online
Il tema dei discorsi d’odio, caro a progetti di Amnesty International o alla Rete Nazionale Contro l’Odio, viene discusso anche in ambito accademico come è recentemente successo presso l’Università di Bologna e l’Università di Macerata, ma sembra non essere di sufficiente interesse nel web. Se non è gossip non interessa, e se fa rumore viene comunque dimenticato velocemente. Ma siamo sicuri che chi sta dietro lo schermo sia capace di gestirlo?
Gli insulti come pu**ana o altri diffamatori sembrano delle comete: recentissimo è l’episodio che ha come protagonista la cantante Ariana Grande, criticata per l’aspetto troppo magro, e che ha generato proprio un suo video su Tik Tok di risposta con tanto di spiegazioni riguardo l’abuso di antidepressivi. Il pubblico online vuole la giustificazione della vittima, esattamente come per i video della showgirl Melissa Satta, che nel contenuto virale afferma semplicemente di voler essere una persona felice come tutti.
La fame bulimica degli haters sfocia poi esattamente nel nulla, in episodi dimenticati dopo pochi giorni che feriscono (e non sappiamo se irrimediabilmente) la sensibilità di chi li subisce. Avanti il prossimo video di donne che possono essere odiate, e così in loop.
Le domande da farci potrebbero essere: è necessario rendere virali gli aspetti più delicati o privati di una donna? E ancora, come utente sui social posso fermarmi e valutare se il mio commento personale è offensivo o generatore d’odio? In entrambi i casi, sfugge la reale necessità di esprimere o diffondere un giudizio. Rispondendo a domande queste, molte donne non sarebbero obbligate a giustificare le proprie scelte sentimentali, lavorative, politiche e così via.
L’hate speech colpisce soprattutto le donne
È proprio delle donne il primo posto come categoria più colpita dai discorsi d’odio online, a seguire le persone disabili e omosessuali, secondo l’ultima Mappa di VOX* (Osservatorio Italiano dei Diritti). I tweet raccolti da Vox nel periodo gennaio-ottobre 2022 (626.151) evidenziano un fenomeno radicalizzato, che ha visto il suo picco più alto contro le donne (43,21%) principalmente in concomitanza con gli episodi di femminicidio (un dato rilevato ormai da anni, come sottolineato nel report).
Dalle Nazioni Unite, al CoE, fino agli enti nazionali e le associazioni attive sul territorio, esiste un’analisi che evidenzia la linea sottile tra hate speech e sessismo e, nei casi più estremi, tra hate speech e violenza di genere. Una delle considerazioni di VOX sull’utilizzo dei social media, è proprio la necessità di un’educazione civica digitale per evitare che l’odio passi dallo schermo ad atti di natura fisica.
La normalizzazione culturale della misoginia
In un articolo pubblicato sulla piattaforma online Springer (Sexist Hate Speech and the International Human Rights Law**), viene analizzata la necessità di estrapolare il concetto di sexist hate speech dal più generalizzato hate speech, soprattutto relativamente all’applicazione del Diritto Internazionale dei diritti umani. Il riconoscimento dei discorsi d’odio da parte delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa è ancora nel pieno della sua burocrazia quando l’odio non è solo gender based ma proprio specifico contro il genere femminile. La complessità dell’applicazione delle leggi che contrastano l’hate speech e la definizione delle soglie dell’odio è ancora oggetto di analisi.
Gli autori del pezzo distinguono infatti il sexist hate speech dal misoginystic speech, quindi esclusivamente riferito alle donne. A supporto, riportano l’episodio del luglio 2020, quando il deputato della Florida Ted Yoho si avvicinò alla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, e dopo aver criticato le sue dichiarazioni politiche usò in presenza dei giornalisti la parola pu**ana. Sempre nell’articolo, viene citata la posizione della deputata Ocasio-Cortez che commentò sottolineando come il linguaggio violento contro le donne sia frutto di una cultura che accetta la violenza di genere. Gli autori affermano quindi che le radici del sexist hate speech possono essere identificate nella normalizzazione culturale della misoginia, che permea ormai il cyberspazio.
Rassegne d’odio e dinamiche di potere sui social
Quante volte vi siete imbattuti in commenti d’odio sui social? E ancora, vi è mai capitato di assistere a vere e proprie rassegne dell’odio pubblicate nelle stories Instagram di attiviste, giornaliste o autrici? Nascondendo i nomi degli autori, vengono ricondivisi commenti o messaggi in direct di diversa natura che spaziano da insulti, affermazioni violente, augurio di morte e offese di matrice sessuale.
Nel suo libro Maledetta Sfortuna (Fabbri Editori, 2021), la scrittrice e attivista Carlotta Vagnoli (intervistata da Alley) approfondisce il linguaggio d’odio sessista e fa riferimento ad un suo articolo pubblicato su The Italian Review, dove individua quelli che lei definisce slur: “parola che nel corso del tempo acquisisce un significato ghettizzante e che si riferisce a un preciso target e a una determinata categoria marginalizzata”. L’obiettivo dello slur sarebbe “veicolare emozioni negative e ristabilire dinamiche di potere”, individuate maggiormente con l’utilizzo della parola troia.
Meccanismi perversi, radicati in una cultura non solo patriarcale ma che ignora le fondamenta del femminismo e dell’empowerment femminile, portano ad insultare le donne con terminologie a sfondo sessuale. L’utilizzo generalizzato di questi termini trasforma un’offesa in un modo di dire. Il risultato sta nell’appropriazione di una posizione di potere (da parte del commentatore, o della commentatrice), mascherata da libertà d’espressione e diffuso a macchia d’olio. Ricordiamo che l’odio genera odio, come ha detto Martin Luther King. E potremmo aggiungere oggi, un commento d’odio genera un altro commento d’odio, purtroppo per solidarietà o per esaltazione.
Le conseguenze psicologiche dell’hate speech
All’interno del report Protecting Women and Girls from violence in digital age, il Consiglio d’Europa associa la violenza psicologica al fenomeno dell’hate speech, includendo l’istigazione al suicidio, gli attacchi verbali, gli insulti o le minacce di morte. Cosa porta un utente a insultare una donna in base al suo peso o perché parla di femminismo? I motivi sono molteplici, personali e collettivi, e possono portare a conseguenze psicologiche gravi come depressione, ansia o dca (disturbi del comportamento alimentare).
Se sei vittima di hate speech, puoi rivolgerti alle forze dell’ordine o chiedere aiuto a chi ti sta più vicino. Il consiglio è di non isolarsi, ma di provare a capire come rispondere, segnalare o bannare i profili di chi genera commenti e discorsi d’odio.
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*Progetto ideato da Vox – Osservatorio Italiano sui Diritti, in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Bari Aldo Moro, Sapienza – Università di Roma e IT’STIME dell’Università Cattolica di Milano.
**Sękowska-Kozłowska, K., Baranowska, G. & Gliszczyńska-Grabias, A. Sexist Hate Speech and the International Human Rights Law: Towards Legal Recognition of the Phenomenon by the United Nations and the Council of Europe. Int J Semiot Law 35, 2323–2345 (2022).
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