L’abbandono scolastico e quella paura di non essere abbastanza

L’ultima a dirlo è la recente ricerca pubblicata da Gallup con Lumina Foundation e riguarda gli Stati Uniti. Ma che gli adolescenti e le generazioni più giovani stiano vivendo una crisi profonda lo vediamo in numerosi studi, oltre che intorno a noi. La crisi descritta dalla ricerca statunitense – che di concentra sui ragazzi del college, quindi ventenni – parla di una “condizione cronica di stress emotivo”, che si correla con numeri importanti di abbandono scolastico e di carriera universitaria.

Il 70% degli studenti che abbandona gli studi lo fa per lo stress emotivo

Ne parliamo ormai dalla pandemia, ma la fragilità della salute mentale dei più giovani non mostra segni di miglioramento. Dalla ricerca emerge che il 41% degli studenti universitari ha considerato, negli ultimi sei mesi, di interrompere il corso di studi a cui apparteneva, e di questi, il 69% sostiene che la motivazione sia legata a una qualche forma di stress emotivo. Quando gli viene chiesto cosa significhi per loro stress emotivo, rispondono che sono “travolti” da troppe cose: lo studio, ma anche le relazioni familiari e interpersonali, e alcuni nominano specificamente stati d’ansia e/o depressione. Insomma, sembrano non reggere la gestione dei contraccolpi emotivi legati alle “normali” esperienze di vita.

Da notare bene che la ricerca, nel relazionare lo stato degli studenti americani, ha incluso ragioni legate alle salute mentale nei motivi per i quali i ragazzi decidono di abbandonare gli studi. Il 40% di tutti gli studenti ha ammesso di aver sperimentato frequentemente stati di stress emotivo anche durante le scuole superiori, e il 48% degli studenti universitari dichiara di provarlo “frequentemente”. Quasi tutti gli studenti dichiarano di sentirsi meglio se vengono supportati da compagni e docenti, e lamentano una scarsità di figure professionali che possano sostenerli psicologicamente all’interno dei college o delle università.

Quando la vita perde la sua direzione

In Italia non stiamo certo meglio e, in situazioni estreme, abbiamo visto come questi vissuti possano contribuire anche a gesti irreversibili, fino ad arrivare a tentare di togliersi la vita. Le cronache riportano – è successo anche negli ultimi mesi – storie di ragazzi e ragazze che arrivano a organizzare la festa di laurea, ma senza aver trovato il coraggio di confessare che gli esami realmente sostenuti erano pochi, e che da festeggiare non c’era niente. O che si sentono talmente schiacciati dalla pressione delle “troppe cose” da pensare di non potercela fare.

Chiariamolo subito: chi arriva a un’azione estrema non è semplicemente una persona che non ce la fa più, ma che questo carico di stress lo somma a delle caratteristiche personali ben definite, che hanno cioè quella che in psicologia si chiama “vulnerabilità individuale”. Sono ragazzi molto sofferenti, che spesso hanno già ricevuto una diagnosi o sono in terapia, altre volte invece hanno saputo nascondere sin troppo bene tutti i loro travagli, e comunque fanno fatica, molto più di altri, a sostenere le quotidiane sfide dell’essere al mondo. Se i pensieri vanno in quella direzione, anche quelli di un amico o di un’amica, o di un conoscente, è importante rivolgersi a chi può aiutare: si può chiamare il Telefono amico allo 02 2327 2327, tutti i giorni dalle 10 alle 24, o il servizio della Samaritans Onlus, attivo dalle 13 alle 22, al numero verde 06 77208977.

Ma anche senza arrivare alle situazioni più estreme, va detto che il periodo del Covid in generale ha esasperato nei più giovani sintomi di malessere che hanno portato a un serio aumento dei casi di depressione, ansia, attacchi di panico, ritiro sociale, disturbi del comportamento. Gli studi professionali si sono riempiti di ragazzi che, non potendo più contare sull’esperienza della socialità, fondamentale in età scolare, hanno perso i già loro fisiologicamente precari equilibri di adolescenti, “scompensandosi” e trovandosi alle prese con disagi più o meno intensi, a seconda ovviamente delle loro caratteristiche di personalità e delle loro storie individuali e familiari.

Dal senso di colpa alla vergogna

Interessa qui analizzare un sentimento spesso poco considerato ma che vedo dilagare tra i più giovani e che, quasi sempre, non solo è alla base di gesti estremi come i tentativi di togliersi la vita, ma che in ogni caso accompagna la maggior parte dei loro vissuti: la vergogna. La vergogna viene definita nella teoria un’ “emozione sociale”, perché nasce nella relazione tra il bambino e il mondo, più o meno fra il secondo e il quarto anno di vita, quando si diventa consapevoli di poter essere giudicati dagli altri. Nella vergogna si è terrorizzati di esporsi, di mostrarsi al prossimo, perché a essere minacciato è il proprio valore personale, che può sembrarci nullo se qualcuno esprime un giudizio negativo su di noi.

Umberto Galimberti, tra gli altri, ha detto che negli ultimi anni siamo passati dalle depressioni legate al senso di colpa a quelle legate alla vergogna. Questo perché ci troviamo in una società che spinge le persone a essere continuamente “performanti”, in tutti i sensi, da quello prestazionale – e ne sono esempio i bambini della materna che già frequentano dai 2 ai 4 corsi settimanali – a quello estetico, in cui impera lo standard di apparente perfezione veicolato dai social.

Senso di colpa e vergogna sono due sentimenti diversi, ma a volte si uniscono e ne nascono tragedie. Il senso di colpa è più legato al fare, all’agire: ho fatto qualcosa di sbagliato e mi sento in colpa. La colpa, in questo senso, si può sempre espiare, o riparare, con azioni di segno contrario. La vergogna è più legata all’essere: mi percepisco sbagliato per come sono, e quindi a volte sento che non c’è rimedio, devo nascondermi, e se sono costretto a espormi sono terrorizzato da ciò che la gente scoprirà di me.

In alcuni casi, spesso legati alla mancanza di un sano rispecchiamento dei genitori, che abbiano saputo valorizzare adeguatamente il bambino, da piccolo, per quello che era, ci troviamo di fronte a un senso di colpa inconscio di essere al mondo, a una specie di bisogno continuo di “chiedere scusa per esistere”, che si trasforma in una vergogna costante e continua che pervade tutte le azioni “spontanee” della persona. E allora spesso ci si “mimetizza”, ci si comporta come si crede che gli altri vorrebbero, ma soffrendo profondamente, al contempo, di una mancanza di autenticità.

La vergogna nei nostri adolescenti è fortissima, e spesso crea dinamiche esplosive perché si associa al vivere in famiglie che, da un lato, li spingono ad affrontare sfide prestazionali fin da quando sono piccoli, ma dall’altro spesso li proteggono troppo, sostituendosi a loro quando incontrano una difficoltà, rendendogli impossibile, quindi, una sana tolleranza alla frustrazione e facendoli diventare incapaci di scovare dentro di sé le risorse per affrontare la vita.

I ragazzi si vergognano dei loro fallimenti e si sentono profondamente inadeguati, non riuscendo ad accedere alle loro potenzialità, e in più si trovano di fronte genitori percepiti come “buoni”, che magari hanno fatto sacrifici per loro, e possono non reggere l’idea di deluderli, perché sentono di non essere stati in grado di aderire alle loro aspettative, e credono che l’errore risieda in qualcosa di sbagliato in se stessi, nel loro essere come sono. Questa dinamica emerge in modo evidente nelle fatiche scolastiche e universitarie, come abbiamo visto anche nella ricerca citata all’inizio, perché se non riescono a reggere emotivamente lo stress della prestazione richiesta si percepiscono loro come sbagliati, si vergognano profondamente e l’unica soluzione che trovano è quella di mollare.

Ragazzi e ragazze, figli anche delle nostre ombre

Volendo poi guardare a come funzionano i genitori di questi giovani, voglio premettere che non ci deve essere nessuna intenzione di trovare il “colpevole”. Quello che serve sono strade educative diverse: mi sembra infatti – come in parte abbiamo già avuto modo di vedere – che i genitori di oggi, pur con le migliori intenzioni, magari di non replicare vecchi modelli disfunzionali subiti a loro volta nelle famiglie, oppure perché non sopportano loro per primi di vedere gli adolescenti soffrire, sembrano essere caduti in un bisogno eccessivo di rimuovere gli ostacoli dalla vita dei figli, con il risultato di crescere ragazzi terrorizzati da ogni piccolo e naturale “non riuscire” in qualcosa, di fronte al quale troppo spesso mollano il colpo e si deprimono.

Carl Gustav Jung diceva che il malessere dei giovani è figlio anche delle ombre della società in cui si trovano a vivere, ovvero di quei sentimenti e quelle emozioni che la società, apparentemente, nega, fa finta che non esistano. Se questo è vero – e io credo profondamente che lo sia – i giovani esprimono ciò che per il mondo di oggi è inesprimibile: la vulnerabilità, l’imperfezione, il senso di inadeguatezza, il dolore, tutte cose di cui sembra impossibile parlare in una società che deve mostrarsi e mostrare tutto di sé, appunto, senza vergogna, aderendo nel contempo a ideali estetici e prestazionali privi di sbavature.

Ma poiché siamo umani, e dell’umano fanno – meravigliosamente – parte l’imperfezione, ma anche la sofferenza, senza la quale non potremmo arrivare alla consapevolezza di chi siamo e crescere come individui, e la vulnerabilità, senza il contatto con la quale non potremmo mai diventare autenticamente forti, negare questi vissuti non solo non funziona, ma crea dei corto circuiti per cui li trasmettiamo (non elaborati in noi) ai nostri figli e loro sono costretti a pagarne le conseguenze.

E’ importante creare dei luoghi in cui tutto questo possa essere pensato e trasformato, per evitare, come diceva sempre Jung, che ciò che non portiamo adeguatamente a coscienza ci governi dai piani bassi dell’inconsapevolezza, e noi lo chiamiamo, erroneamente, “destino”.

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  • Elena Perrotta |

    Non so se definirlo disagio da stress emotivo, ma ho vissuto una cosa analoga nel lontano 1975. Frequentavo il primo anno della facoltà di farmacia e dopo aver sostenuto gli esami di chimica inorganica e microbiologia, mi sono bloccata, letteralmente, difronte all’esame di chimica organica. Superavo il compito scritto e non rispondevo all’ appello orale. Avevo paura, intanto i mesi trascorrevano implacabili ed essendo un esame propedeutico, non potevo andare avanti. L’insonnia, l’ansia, la vergogna di dire la verità alla mia famiglia, le bugie verso di essa, facevano crescere i miei sensi di colpa. Già, io non avevo mai deluso le aspettative dei miei genitori, ero sempre stata la più brava, la studentessa modello, ma come uscirne? Il timore di confessare tutto era grande e continuavo ad inventare successi, a fare progetti. Un giorno, però, mia sorella, con la quale dividevo l’appartamento a Roma e che conosceva tutta la verità, rivelò l’accaduto a mia madre. In quel momento mi sono augurata un malore, per distogliere l’attenzione, scomparire e non farmi trovare più. Ma tutto svanì, quando mamma, calma e paziente mi disse:” ti sei tenuta dentro questo peso per così tanto tempo, chissà che sofferenza, se avessi parlato prima, ti avremmo aiutata”. Detto da mia madre, casalinga, con la quinta elementare e poche possibilità economiche, fu, per me, un grande regalo, la fine di un bruttissimo incubo. Ho sostenuto l’indigesto esame di chimica organica e quelli successivi, arrivando a laurearmi e realizzandomi nel lavoro. Confesso che è stata un’esperienza che mi porto dietro, anche a distanza di anni. Sogno ancora quel periodo, specialmente quando devo affrontare qualche problema di vita quotidiana o sono preoccupata. Sento di consigliare a tutti i ragazzi che soffrono di questo disagio, di non isolarsi, di parlarne, di non sopportare questo fardello, che so bene essere pesante, da soli. Non abbandonate l’università, non siate nichilisti, prendetevi una lunga vacanza, ritrovate voi stessi, la serenità di affrontare la vita con leggerezza e completare, in questo modo, il percorso di studio. L’adolescenza e la prima gioventù sono le stagioni più belle della vita, ma sanno destabilizzare le persone e renderle vulnerabili. Credeteci sempre e arrendervi mai.

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