Ci aspettavamo che succedesse già con i Millennial, ma la spallata finale sembra essere arrivata con la generazione Zeta: i giovani stanno mettendo in discussione il “senso” del lavoro. E, mentre in Francia il dibattito avviene nelle piazze, coinvolgendo anche generazioni più anziane che non ne vogliono sapere di lavorare due anni in più (fino a 64 anni), in Italia il tema appartiene ancora ai corridoi.
L’ansia cresce quando vi si associa il crollo delle nascite, meno di 400mila nati nel 2022 equivalgono a sempre meno energia immessa nel mondo del lavoro: chi sosterrà il peso dell’ottava economia mondiale?
Se lo sono domandato gli amministratori delegati di alcune tra le principali aziende italiane durante un incontro del Consorzio Elis dal titolo “I giovani e il lavoro”, e la campanella di allarme era chiara: i giovani stanno scegliendo di andare a fare altro, lasciando promesse di carriera che un tempo avrebbero inorgoglito mamma e papà, e lo fanno perché, semplicemente, sembrano avere valori – e quindi desideri – diversi. Vanno via perché non si riconoscono nell’identità lavorativa che viene loro proposta: se da remoto manca l’immersione emotiva che nutre il senso di appartenenza, in presenza non convincono le logiche di senso, l’accelerazione, le dinamiche relazionali, la sensazione, insomma, di dover scegliere tra il proprio lavoro e “il resto”, un resto in cui i giovani hanno chiara la percezione che vi sia molto di loro.
“Il lavoro è un solo tassello delle molte cose che ognuno è: famiglia, hobby, interessi…”
dice in apertura dell’incontro Nicola Lanzetta, Direttore Italia del Gruppo Enel, ed è evidente che non sta parlando solo “dei giovani”, ma che questo concetto riguarda tutti, portandosi dietro una diversa aspirazione ad essere e a dimostrarlo (anche) col proprio lavoro.
Lavorare per avere (anche) senso
Il paradosso è che, proprio mentre diventa finalmente possibile il sogno del ragionier Fantozzi – lavorare senza dover andare ogni giorno in ufficio – la possibilità di lavorare da remoto lancia la sfida definitiva alla capacità che il lavoro ha di arricchire il senso di una vita composita.
Se questo fosse solo economico, nessuno si lamenterebbe sentendosi un criceto nella ruota (in qualche modo bisogna pur mangiare), ma sappiamo fin troppo bene che, sia che si parli di lavoro e preghiera, secondo la regola benedettina, o di lavoro e amore, come insegnava Freud, il lavoro è per l’essere umano molto di più di un mero “fare”.
Questa dimensione ideale di un lavoro che dà un senso all’essere è tanto più possibile oggi, che la parte bassa della Piramide dei bisogni di Maslow viene presidiata in modo sempre più automatizzato e quindi le professioni “umane” possono permettersi di spostarsi verso la parte alta. Ancora più della specializzazione, sono l’intelligenza, l’energia, la proattività delle persone a fare la differenza, soprattutto in settori come quello Informatico e Digitale (che ha registrato il 32% delle dimissioni di giovani nel Nord Italia nel 2021, secondo AIDP) o del Marketing e Commerciale (27%).
Non sembra strano quindi anche quel desiderio di “attivismo” – collegato all’autorealizzazione – da parte delle nuove leve, che vorrebbero poter mettere il cuore in ciò che fanno; come hanno sempre detto di voler fare anche le donne, per cui il “purpose” è sempre stato in cima alla lista delle motivazioni per la scelta di un posto di lavoro.
E infatti, mentre dalle parole dei relatori i giovani emergono come “sentimentali”, appassionati e idealisti, a chi come me studia da un decennio le dinamiche del lavoro femminile scappa un sorriso: dove le abbiamo già sentite queste cose?
Dai “sentimenti” al desiderio di un maggiore equilibrio vita lavoro, dal bisogno di senso (“purpose”) a scelte che mettono il ritorno economico al secondo o terzo posto, dopo l’aspirazione ad avere un impatto: i giovani che arrivano oggi ingrossano e rianimano le fila, ormai esauste, delle donne che da decenni presentano istanze molto simili.
Dissonanze necessarie per migliorare il sistema
E’ una buona notizia – non solo per le donne: per tutti, perché una massa critica maggiore (giovani più donne) ha più chance di trasformare un sistema che si è rivelato estremamente rigido – ma è una notizia che contiene anche un elemento di allarme: negli anni, per le donne e sulle donne, sulla loro diversità e bisogni, sulla loro fuga silenziosa (che sembrava più che altro una “cacciata”) si sono tenuti convegni e fatte ricerche, in molti casi evidenziando con dati incontrovertibili la perdita che la loro rinuncia comportava per l’economia. Ma questo non ha cambiato molto, o almeno non in modo visibile, a giudicare dai dati sull’occupazione femminile – per esempio, nel 2022 l’occupazione femminile è cresciuta di 152mila unità contro le 230mila di quella maschile, e a dicembre si è registrato un record negativo: zero “attivazioni nette” femminili.
Si sa da tempo “perché” l’occupazione femminile non cresce, si sa perché le donne lasciano il lavoro e si sa che tipo di perdita questo comporta per tutto il sistema (i famosi 7 punti di PIL in più che secondo la Banca d’Italia avremmo se l’occupazione femminile arrivasse al 60%), ma tutta questa sapienza ha avuto un impatto molto limitato. E’ importante evitare di ripetere con i giovani lo stesso errore: riempirsi di informazioni, tesi, dibattiti e dati il cui scopo ultimo è una situazione di sostenibilità che cambi il meno possibile.
Come le donne, anche i giovani (Millennials, Zeta e, in riscaldamento sui banchi di scuola, Alpha) sono necessari al sistema perché la diversità può e deve metterlo in discussione e così renderlo migliore, riattivare al suo interno uno scorrere del tempo che logiche efficientistiche tendono a considerare una minaccia. E’ proprio dove “duole” che il sistema può individuare quel che non funziona: nelle ragioni per cui donne e giovani lasciano c’è la chiave per un nuovo modo di disegnare il lavoro, migliore per tutti.
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