«Quella mamma potevo essere io». Dare voce ai diritti delle partorienti

Accade che a un certo punto smetti di essere Silvia o Giada o Marika e diventi semplicemente “la mamma”. È comune che sia così quando varchi la soglia di buona parte dei reparti di ostetricia e ginecologia degli ospedali italiani, quasi a confermare che da quel momento in poi smetti di esistere come persona singola, completa a te stessa, e diventi appendice di qualcun altro. Sei “la mamma” e basta. Esisti solo in funzione di tuo figlio o di tua figlia. E questo fa sì che, inevitabilmente, i tuoi bisogni passino in secondo – diciamo pure in ultimo – piano. La tragedia del piccolo Carlo Mattia, il neonato morto soffocato all’Ospedale Pertini di Roma, è la punta di un iceberg profondissimo, rimasto silenzioso per troppo tempo.

Questione di diritti

«Quella mamma potevo essere io”, lo abbiamo pensato tutte – confida Sasha Damiani, medico anestesista e fondatrice della pagina e podcast Mamme a Nudo -. È arrivato il momento di rimettere al centro i diritti delle partorienti. Parliamo di persone, di donne, di cittadine. E lo stesso vale per i loro compagni, che sono uomini e cittadini, prima ancora che padri».

Cosa significa nel concreto?

Rimettere al centro i diritti delle partorienti. Cosa vuol dire nel concreto? Significa ripensare alcune pratiche come quella del rooming in, tenendo a mente che il benessere psicofisico della donna dovrebbe venire prima, sempre. «Il puerperio è una fase delicata e vulnerabile in cui le donne sono sottoposte a moltissime manipolazioni psicologiche – spiega Sasha Damiani -. Il birth trauma, o trauma da parto, è estremamente comune e si stima che per il 60% dei casi sia dovuto non a ciò che fisicamente accade al momento del parto quanto piuttosto a una cattiva relazione umana con il personale presente. Ed è su questo che dovremmo lavorare di più. Ma mancano i fondi e manca, soprattutto, la cultura»

Così, attenzione a richiedere l’epidurale per alleviare il dolore del parto: potresti essere considerata una bambina viziata. Meglio mettere a tacere il diritto al riposo dopo la nascita, ora sei madre, devi occuparti di tuo figlio. E se dovessi scegliere di non allattare al seno, sappi che potresti essere definita inevitabilmente una mamma di serie B. E a nessuno importerà se per questo ti sentirai frustrata, fallita o fisicamente e psicologicamente sfinita.

La carenza di personale

Perché accade tutto questo? Per un pesante gap di formazione (e informazione), certo, ma anche per mancanza di personale. Secondo l’ultimo report Eurostat (2020), in Europa si contano circa 162.000 ostetriche, con grandi squilibri territoriali: l’Irlanda è il Paese EU in cui il rapporto di ostetriche rispetto alla dimensione della popolazione è più alto, pari a 211 per 100.000 abitanti, mentre all’estremo opposto, in Slovenia, se ne contano appena 15 ogni 100.000 abitanti. L’Italia è sotto la media, con circa 21.000 ostetriche totali, meno di 30 ogni 100.000 abitanti. Eppure, le linee guida dell’Oms raccomandano la presenza di un’ostetrica per ogni donna in travaglio. Un traguardo che appare ancora lontanissimo.

La stessa Federazione nazionale degli ordini della professione di ostetrica (Fnopo) afferma che il numero di professionisti/e del settore dovrebbe quanto meno raddoppiare per rispettare il fabbisogno. Come emerso nell’ambito della Giornata Internazionale delle Ostetriche, infatti, l’assistenza erogata dall’ostetrica/o con risorse complete entro il 2035, potrebbe evitare il 67% delle morti materne, il 64% delle morti neonatali e il 65% dei nati morti.

Eppure, le fila della professione si stanno progressivamente sfaldando. Basta entrare nelle aule universitarie: in Italia siamo passati da 804 laureati e laureate in ostetricia nel 2010 a 456 nel 2020. Espresso per 100.000 abitanti, il numero di laureati/e in ostetricia nel 2020 ha raggiunto il picco in Paesi come Belgio (5,6 per 100.000 abitanti), Finlandia (3,5 per 100.000 abitanti) e Svezia (3,3 per 100.000 abitanti), mentre ha toccato il fondo per Italia, Spagna e Cipro (meno di 1,0 ogni 100.000 abitanti).

Le dimissioni anticipate

Così, c’è chi prova a trovare soluzioni alternative. È il caso di Gaia Rota e Michele Cattaneo, genitori di Lavinia, Brando, Nilde e della neoarrivata Tea, nonché founder della pagina La Tenda in Salotto su cui condividono percorsi e visioni di una famiglia controcorrente, ma sempre dalla parte dei diritti.

«La nostra terza figlia, Nilde, è arrivata durante il secondo lockdown: abbiamo vissuto quel momento come fossimo in una bolla, cercando di ricreare un equilibrio quando di equilibrato intorno a noi non c’era nulla – racconta Gaia -. Per la nascita di Tea, qualche mese fa, volevamo fare in modo che Michele potesse essere presente il più possibile e che io stessa potessi sentirmi più tranquilla, meno sola». Sì perché contro ogni narrazione stereotipata, la maternità è molto spesso compagna della solitudine. Ed è stato così soprattutto negli ultimi due anni, con donne invisibili a cui si è chiesto uno sforzo ancora maggiore.

«Abbiamo fatto una ricerca su tutti gli ospedali della Lombardia perché sapevamo che la legge 28 maggio 2021, n.76 Disposizioni per l’accesso dei visitatori alle strutture ospedaliere, residenziali, socio-assistenziali, socio-sanitarie e hospice, art. 7dava la facoltà alle singole strutture di adottare misure precauzionali garantendo un accesso minimo giornaliero ai visitatori non inferiore a quarantacinque minuti, senza però riconoscere un ruolo diverso ai papà.

Il primo punto su cui potremmo discutere è se è giusto che il padre sia equiparato a un visitatore qualsiasi, ma oltre questo, ciò che ci ha colpiti è che molte strutture, soprattutto private, aprivano all’accesso dei visitatori anche per tutto il giorno, mentre nel pubblico c’era maggiore rigidità, con alcune strutture che erano ancora completamente chiuse» racconta Michele.

Da lì, la decisione di optare per le dimissioni anticipate volontarie il giorno stesso del parto con un’assistenza ostetrica domiciliare. A pagamento, ovviamente. «L’abbiamo fatto alla luce del fatto che era il mio quarto parto e solo dopo aver avuto il via libera dai medici. Rientrati a casa, io ho avuto modo di riposare, senza paure e senza sensi di colpa, mentre Michele ha controllato la bambina e mi ha chiamata solo quando necessario. Mi sono sentita libera, compresa, realmente assistita» confida Gaia.

Le attiviste

La sua battaglia, oggi, è la battaglia di tante donne e di tanti uomini. Dalla loro esperienza, infatti, è nato un collettivo di attiviste e attivisti che sta lavorando per portare in Parlamento la discussione sui diritti delle partorienti. Un team di cui fanno parte – tra gli altri – Iris Babilonia (Orrori in Sala Parto), Daniela Cremona (Misscreamycreamy), Francesca Fiore e Sarah Malnerich (mammadimerda), Serena Saraceni, medica psichiatra (@dr.serena_saraceni), Angelica Savoini, avvocata specializzata in diritto antidiscriminatorio e del lavoro, Ella Marciello, creative director e attivista (gender gap e narrazioni non stereotipate), Ilaria Maria Dondi, giornalista direttrice responsabile di Roba da Donne, Francesca Salviato, avvocata Diversity_law (Parto Male), Francesca Bubba, divulgatrice e attivista per i diritti della maternità e la stessa Sasha Damiani.

«Abbiamo già una bozza di legge e a breve partiremo con una campagna di comunicazione» annuncia Gaia. «Modelli diversi sono possibili, basta guardare a cosa accade in alcune Province Autonome, dove l’assistenza ostetrica domiciliare è garantita a tutte gratuitamente. Ecco, non vorremmo più eccezioni o silenzi comunemente accettati. Soprattutto – conclude Gaia – non vorremmo più che la maternità venisse considerata un “problema di pochi”, da raccontare a tanti solo come una favola bella».

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