“Nun fa ‘na tragedia”. Emanuele Di Porto, il bambino del tram sfuggito ai rastrellamenti dei nazisti nel ghetto ebraico, oggi novantenne, lo ha raccomandato alla scrittrice Tea Ranno, autrice del libro “Un tram per la vita” prima che lei si accingesse a scrivere, romanzandola, la sua storia. La storia di uno degli ultimi testimoni dei rastrellamenti dei nazisti a Roma. E il libro, inserito nella collana “Il battello a vapore” (Piemme) pensata per i più giovani, non è affatto una tragedia, o almeno non è soltanto una tragedia. Fa commuovere, fa pensare, ma fa anche sorridere.
La storia, raccontata con la penna felice di Tea Ranno, scrittrice nota per le sue potenti figure femminili, non nasconde il dolore, il terrore che si respirava in quegli anni. Ma racconta anche quanto di buono e di eroico c’è stato, l’indignazione di alcuni verso quello che stava succedendo, la capacità di mettere a rischio la propria vita per salvare quella degli altri. Una storia che chi è nato nel ‘900 sente come sua e conosce, se non per via diretta, dai racconti dei genitori o dei nonni, ma che è giusto arrivi anche ai più giovani che potrebbero correre il rischio di dimenticare o sottovalutare le sopraffazioni, i genocidi e le tragedie che la guerra porta con sé e che anche gli italiani hanno vissuto in prima linea.
Ecco allora che attraverso gli occhi di un bambino di 12 anni, attraverso un linguaggio inframmezzato da frasi in romanesco che rendono più realistica la storia, riviviamo il clima che si respirava negli anni Quaranta del Novecento, il bombardamento di San Lorenzo, la fame, la povertà, i rastrellamenti al ghetto, la paura degli ebrei braccati per tutta la città e a volte venduti dai loro stessi amici ai tedeschi. Ma anche la gioia di vivere, la voglia nonostante tutto di giocare, i primi turbamenti amorosi.
Emanuele fa parte di una numerosa famiglia ebrea che vive nel cuore del ghetto e si arrabatta in ogni modo per mangiare. La sua famiglia vive in una stanza della casa, le altre due sono occupate dalle famiglie delle sorelle della madre. A volte solo una famiglia aveva da mangiare e capitava che si stesse a guardare nella cucina comune gli altri che mangiavano. Nonostante ciò, si trattava già una situazione fortunata se paragonata a quella di chi non aveva un tetto dove ripararsi. “Io – racconta Emanuele Di Porto nella prefazione – non sono stato mai un bambino, perché a quel tempo c’era la miseria nera e ognuno doveva sbrigarsi a crescere per dare aiuto alla famiglia: non sono stato mai un bambino, ma non sarò mai vecchio, perché, nel mio cuore, il tempo s’è come fermato”.
La storia, dicevamo, è attraversata dalla tragedia ma ha un finale di speranza. Il 16 ottobre del 1943, la madre esce da casa perché ha paura che il marito, fuori per lavorare, venga catturato dai nazisti. Lo vuole avvisare a tutti i costi. Esce, lasciando i figli in casa, ma finisce per essere catturata lei; Emanuele vede tutto dalla finestra del terzo piano di casa sua che dà su via della Reginella e si precipita giù per salvarla. Ma viene preso anche lui. Sarà la madre, invece, a salvare lui, riuscendo a buttarlo fuori dal camion fermo nell’attuale piazza Mattei. La madre, racconta Emanuele nel libro scritto in prima persona, lo ha messo al mondo due volte: quando lo ha fatto nascere e quando lo ha buttato fuori dal camion. Il ragazzino riuscirà a sfuggire ai nazisti nascondendosi dentro un tram. Racconta, infatti, all’autista di essere ebreo e di essere in fuga dai nazisti. L’autista e i suoi colleghi, rischiando la vita, lo prendono sotto la loro protezione, lo nutrono e gli trovano un posto dove dormire. La tragedia non si ferma: la mamma morirà nelle camere a gas solo due giorni dopo il suo arrivo nel lager. Ma Emanuele riuscirà a salvarsi e a vivere la sua vita.
Nel libro si parla di ebrei, si parla di cattolici, delle cattiverie e di chi faceva la spia ai nazisti, ma si racconta anche di uno spirito di fratellanza, anche tra uomini e donne appartenenti a fedi diverse. Oltre agli autisti, colpisce la figura di una ragazza coraggiosa che Emanuele incontra nel tram, mentre sfuggiva al destino di deportazione. “È dal ’38 che gli ebrei sono privati dei diritti, dal tempo delle leggi razziali. E ditemi un po’: secondo voi, un uomo senza diritti è un uomo?”. La ragazza non ha paura e nonostante un uomo sul tram, che si professa orgogliosamente cattolico, la inviti a star zitta e a non occuparsi di queste cose, lei continua: “Chi è il prossimo tuo? Tutti tranne gli ebrei? Tutti tranne gli omosessuali? O gli zingari? O i neri?”. Una ragazza coraggiosa che non accetta il silenzio, la connivenza, che sfida il potere dell’epoca.
Il libro “Un tram per la vita” nasce dall’incontro tra due persone, dall’amicizia che ne è scaturita, da un palpabile legame tra il bambino del tram e la scrittrice che è venuta a conoscenza della storia di Di Porto vedendo un frammento di una trasmissione di Alberto Angela e subito se n’è innamorata. Dopo aver rintracciato il contatto telefonico di Di Porto, Tea Ranno era titubante: “Sono stata quasi un mese senza chiamarlo, è stato un mio amico sacerdote a insistere. Sarà – mi ha detto – un raggio di luce nella tua vita. E così è stato”. Dal primo incontro al bar di piazza Mattei, dove c’è la fontana delle Tartarughe, Tea Ranno esce con il desiderio di scrivere la storia di Di Porto e di scriverla presto. Il motivo principale? “Tra mille treni piombati per la morte, c’è stato un tram per la vita”. C’è cioè un messaggio positivo al termine di una storia drammatica, proprio come vuole Di Porto. In questo modo, dice la scrittrice, “i bambini, i ragazzi possono farsi un’idea di quanto di tremendo possa provocare la guerra e capiscono anche quanti atti eroici ci siano stati, come quello di una mamma che salva il suo bambino”.
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Titolo: “Un tram per la vita”
Autrice: Tea Ranno
Editore: Il battello a vapore (Piemme)
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