Sembra essere un problema inevitabile: ogni volta che si fa qualcosa per l’inclusione, si finisce con l’escludere qualcuno. Succede perché per includere occorre allargare i perimetri, ma per allargarli occorre prima vederli, e quindi vedere chi è dentro e chi è fuori e poi decidere da che parte estenderli. Sono tutte operazioni molto delicate, e a dimostrarlo ci sono fior di dati che attestano che le varie attività fatte nei decenni a vantaggio della diversity hanno prodotto spesso un effetto boomerang, o comunque risultati estremamente scarsi.
Gli stessi bias, per citare uno dei concetti più avanzati con cui si sta rispondendo al bisogno di inclusione, hanno l’effetto perverso del venir rafforzati ogni volta che li si nomina per definire una categoria, anche se l’intenzione è quella di diminuire l’indebolimento prodotto dalla categoria stessa. Inevitabilmente, le organizzazioni che vogliono parlare di inclusione e diversità senza escludere nessuno finiscono con l’aprire un susseguirsi di tavoli: una “sfilata” di categorie diversissime tra di loro, che in comune hanno solo la definizione di minoranza e la distanza da una sempre più teorica idea di standard. Equilibrio vita-lavoro, etnia, orientamento sessuale, età, disabilità, genere… chi si ricorda più di quando la D di diversità coincideva con la D di donne? E neanche allora, avendo in mente una sola direzione, sembrava semplice allargare le maglie dell’equità. A complicare ulteriormente le cose, si è aggiunto il concetto di intersezionalità, che identifica i (numerosi) casi in cui nella stessa persona convivono più elementi di minoranza: etnia e genere, genere e orientamento sessuale, etnia e work-life balance…
Questo è il risultato di un importante cambiamento di sguardo avvenuto negli ultimi anni, che ha richiesto alle organizzazioni, nelle figure dei manager e dei responsabili HR, di vedere meglio le persone e distinguere le loro caratteristiche: non tanto e non solo per un tema di equità, ma per un bisogno di talento che non poteva fermarsi a un filtro grossolano e doveva far emergere anche quanto i vecchi bias andavano recidendo a colpi di standard. Ma come si fa? Se le diversità sono una decina, e poi addirittura decine, e ognuna è per definizione un unicum (che guaio sarebbe, cercare un’unica formula che comprenda e definisca tutte le diversità): come si fa a includerle tutte senza che questo si trasformi, volta per volta, in un atto di esclusione di qualcosa?
La soluzione potrebbe essere nello stesso strumento che sta consentendo di vedere meglio ciò che c’è: se consideriamo questa capacità di visione come un’operazione di “zoom” che le organizzazioni fanno quando guardano le persone più da vicino, accogliendo immagini che appaiono così meno uniformi, che succederebbe se quello stesso zoom portasse a vedere le persone in modo molto più ampio? Allargando lo zoom intorno a ogni categoria di diversità, apparirebbero le altre caratteristiche di chi ne fa parte, risultando in una definizione più inclusiva di intersezionalità. Nessuno è solo una cosa: se il mio essere donna mi fa entrare nella minoranza di genere, il mio essere Napoletana mi assimila al meridione, il mio essere madre ai temi di work-life balance, le condizioni di salute dei miei genitori fanno di me una caregiver e così via, in una stratificazione di caratteristiche che fanno di ognuno di noi una matrioska.
E qui sta la magia: ad almeno uno di questi livelli, ho qualcosa in comune con chiunque altro intorno a me.
Quindi, una coraggiosa operazione di zoom “grandangolare”, che vedesse di ognuno le molte dimensioni che ne compongono l’identità, vedrebbe anche i ponti, i territori comuni, i bisogni condivisi, che quelle dimensioni possono creare con tutti gli altri. Rompendo definitivamente i bias delle mono-categorie.
Si potrebbero chiamare “etichette trasversali”: quelle che uniscono invece di dividere. Non nascondono l’unicità di ognuno, ma la compongono con le altre caratteristiche che le persone hanno e ne mostrano il movimento sinergico nella direzione di un’identità collettiva più forte, perché costruita su ciò che ci rende simili nella diversità. Guardati in questo modo, esistono territori comuni a tutte le categorie: non solo a quelle oggi definite “minoranza”, ma anche a quelle professionali (ruoli e obiettivi diversi, team diversi), a quelle che riguardano il grado manageriale (spesso qui si nascondono le grandi insidie dei bias: quel che può fare il capo, quel che piò fare il collaboratore e dove e perché possono considerarsi “pari”), e così via.
Quanta complessità, non è forse più semplice continuare a definire le diversità per ciò che le distingue, invece che fare spazio a multi-dimensionalità che creerebbero una moltitudine di incroci? La scelta dipende dall’obiettivo: segmentare è più veloce e consente una narrazione semplificata di una parte della storia, escludendo di volta in volta tutte le altre, ma spesso contribuendo a rafforzare i bias che vorrebbe rompere; mettere insieme è un gesto nuovo e come tale comporterebbe nuovi errori, rottura di schemi e comparsa di prospettive inaspettate, tutte da esplorare: meno veloce, più incerto, ma potenzialmente alla base di una mappa che reggerebbe più a lungo nel tempo. Rendendo obsoleto il bisogno di inclusione perché, in un modo o in un altro, saremmo tutti già lì.
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