Sono tempi difficili per i manager che vogliono evolvere e far evolvere le proprie organizzazioni, sapendo interpretare bisogni e opportunità di questo momento storico. Lasciando per un momento da parte le sfide di un mercato sotto stress post pandemico, bellico, climatico ed energetico, manca una bussola chiara per cogliere la direzione da dare alla cosiddetta “gestione delle persone”. Una sfida che riguarda non solo la capacità di attrarre e coinvolgere i talenti della generazione Zeta ma anche, più semplicemente, la possibilità di mantenere attivi e motivati tutti gli altri: i Gen X, i Millennials e ancora molti Baby Boomer, che costituiscono la spina dorsale della produttività attuale e il terreno di accoglienza e fioritura dei nuovi entranti.
I manager si trovano oggi a dover gestire correnti di pensiero in apparenza nuove e spesso in contraddizione: emerse le fragilità psicologiche di molti, legittimata l’esigenza di una conciliazione vita lavoro che comprende, ma va oltre, la maternità, “fa tendenza” la richiesta di fiducia sottostante un lavoro almeno in parte da remoto, ma al tempo stesso è evidente la difficoltà di far entrare pienamente nel ruolo qualcuno solo attraverso lo schermo del PC… il manager quindi non sa più se deve essere vicino ed empatico oppure distante e capace di misurare solo i risultati.
E in effetti il nodo sta proprio nel definire la differenza tra relazione e risultato.
Premiare il secondo è relativamente semplice, una volta che si sa come definirlo. Ma, paradossalmente, per quanto suoni innovativa e meritocratica, la definizione di un lavoro sulla sola base dei risultati si rifà alla vecchia scuola della leva puramente economica. In un mondo “perfetto” dal punto di vista economico, infatti, domanda e offerta non hanno ostacoli di comunicazione e si incontrano sempre, generando un equilibrio virtuoso tra ciò che il lavoratore fa e ciò che l’organizzazione cerca, in cui la persona è una “risorsa” come le altre e la retribuzione è l’unico premio necessario. In questo scenario, avrebbe ragione chi trova inutile andare in ufficio: la tecnologia ci dà quanto serve in abbondanza per fare un lavoro di questo genere ovunque siamo. Per quanto suoni antica e asettica, questa è la descrizione di una società in cui i lavoratori sono fully remote: possono vestire qualsiasi ruolo senza incontrarsi mai veramente.
Poi, però, c’è la relazione. In una scena della serie Mad Men citata in un recente articolo dell’Harvard Business School, Peggy Olson protesta col proprio capo, Don Draper:
“Non mi ringrazi mai”.
E lui risponde: “Per questo c’è lo stipendio!”.
La maggior parte dei Gen Zeta che ho incontrato in questi mesi si lamentavano della difficoltà di creare relazioni, anzi di “entrare” proprio nel ruolo, senza incontrare mai nessuno. Sono entrati nel mondo del lavoro in modalità da remoto e hanno faticato a trovare il senso di quel che fanno. Allontanandosi, volenti o nolenti, dalle dinamiche personali e relazionali dell’ufficio, le persone hanno scoperto la flessibilità e la fiducia, ma hanno anche perso, all’inizio impercettibilmente, il senso di vicinanza con quella parte preponderante della loro giornata che è la missione del loro lavoro.
Ecco quindi il secondo trend in crescita, accanto a quello del lavoro da remoto: il bisogno delle persone di essere viste per intero per poter interpretare pienamente e con convinzione il proprio mestiere. D’altronde, che cosa sono i “quiet quitters” se non persone che hanno scelto di fare “solo ciò per cui vengono pagate”? Nascoste, non importa se in ufficio o a casa, dentro alla cornice stretta della definizione di un ruolo, sono persone che non trovano motivo o modo di fare altro che ciò che gli viene chiesto.
I professori Abdelal e DeLong, dell’Harvard Business School, vedono dietro a fenomeni come le grandi dimissioni, l’alienazione sempre maggiore dei lavoratori e la crescita del numero dei “quiet quitters” la stessa origine: l’aumento di relazioni di carattere puramente contrattuale con gli impiegati, a rimpiazzare investimenti emotivi. Leve finanziarie (a premiare il risultato) e giuridiche (a disciplinare il lavoro ibrido) al posto di relazioni umane, insomma. La tendenza è crescente, e gli studiosi lo dimostrano con un esperimento molto semplice da fare in ogni ufficio: chiedere ai manager quante delle persone del loro team hanno più bisogno di servizi di welfare. Dai loro risultati, i manager di 50-60 anni sanno citare almeno tre delle loro persone, i 40enni scendono a due e i 30enni fanno fatica a comprendere la domanda.
Che cosa sappiamo delle persone con cui lavoriamo? E il lavoro a distanza, che spazi lascia a questo tipo di conoscenza, al bisogno che le persone hanno di essere viste? Si potrebbe controbattere che, anche in presenza, è tutt’altro che ovvio andare oltre il confine del ruolo nel vedere una persona, ma qui c’è lo spazio perché i manager diano un senso e un contenuto al ritorno in ufficio. D’altronde, il bisogno di relazione dei loro collaboratori è più forte che mai, il denaro funziona sempre meno come seduttore dei talenti e motivatore a “fare più del necessario” e la richiesta di un “buon motivo” per riprendere il pendolarismo casa ufficio anche solo qualche giorno a settimana è sul tavolo, in attesa di risposta.
Le persone non vogliono lavorare in isolamento. Le persone vogliono essere viste e conosciute, e vogliono vedere e conoscere gli altri. Occorre però esplicitare la dimensione relazionale come uno dei vantaggi chiave dell’incontro di persona. Non solo e non tanto per la produttività, che può essere garantita da un lavoro “per obiettivi”, ma per due fattori che ne sono condizione e miglioramento: il fatto che le persone stiano bene nella relazione col proprio lavoro (che non è un entità astratta, ma è fatto da colleghi, capi e clienti) e la possibilità per ognuno di scoprire e prendere responsabilità anche di obiettivi nuovi e imprevisti, che emergono solo negli interstizi dell’agenda standard, dalla capacità di pensiero laterale che le persone hanno quando si muovono nei luoghi e nelle relazioni, diventando molto più che mere esecutrici.
I manager oggi hanno davanti due tendenze potenti e in parte contrapposte: una chiede che sappiano misurare le persone dai risultati e non dalla presenza; l’altra chiede che sappiano conoscere le persone in profondità, per andare oltre il mero “work done”, per farle stare bene e per dare loro ciò che va oltre la retribuzione finanziaria. La sfida sta nel tenere insieme le due cose, esplicitando come, nella ricerca di un nuovo mix che faccia fiorire persone e organizzazioni, gli ingredienti siano molteplici e tutt’altro che scontati, e abbiano bisogno del contributo di pensiero di tutti quelli che hanno a cuore il senso del proprio lavoro.
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