Nuovi modi di lavorare? E’ la stagione del nostro scontento

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Meglio da vicino o da lontano? Quali sono i vantaggi del remote working e quali quelli dello stare in ufficio? Ci aspettiamo che ogni lavoratore trovi i propri e faccia scelte responsabili e conseguenti o, trattandosi di un movimento “di massa”, è necessario che ve ne sia un governo? Argomento attualissimo, nella stagione delle policy del “come ripartiamo”, con la sensazione che sia ora o mai il momento di decidere le modalità del lavoro del futuro. Policy vuol dire politica, e le policy sono uno degli strumenti di governo delle organizzazioni. In modo più o meno manifesto e consapevole, le aziende sono infatti delle piccole polis, di cui i lavoratori sono cittadini. Senza diritto di voto, ma dotati di potere (produttivo, in ultima istanza), ricevono le policy come modalità di governo da parte della loro polis: istruzioni e regole che uniformano i comportamenti con l’obiettivo di ridurre gli sprechi e migliorare i risultati.

Spiegatelo voi, però, alla generazione Zeta, che adesso la polis li vuole in loco: che ci sono delle regole da seguire. Oggi è difficile spiegarlo persino alle altre generazioni: agli X come ai Millennial, figurarsi dirlo a chi nei due anni passati, quando era al primo ingresso nel mondo produttivo, si è trovato a non dover mai prendere un mezzo di trasporto per raggiungere un luogo preciso, deputato al lavoro. Come minimo chiederanno quel che gli altri pensano, magari senza dirlo: ovvero maggiore “fiducia” nella loro capacità di decidere quando serve andare in ufficio, fiducia quindi nel fatto che il lavoro ibrido si istruisca da sé, con l’uso.

Potrebbe succedere. La scienza ci dice che, anche senza nessuna direzione dall’alto, organismi molto complessi finiscono con l’organizzarsi in modo funzionale. Ma c’è un ma: il risultato richiede tempo, e richiede di passare per un periodo di sostanziale caos. Per questo gli esseri umani hanno scelto di dotarsi di regole (e di governi) per minimizzare i costi dell’apprendimento, mettendo a fattor comune alcuni elementi, spesso di compromesso, perché ne vedono il vantaggio.

C’è quindi un vantaggio, anche per chi la “subisce”, nell’avere una policy che dia delle regole su come mettere insieme presenza e distanza nel nuovo modo di lavorare post pandemia. Secondo i dati più recenti, la modalità ottimale non è quella “full”: né fully remotefully in presence, le persone lavorano meglio se possono combinare entrambe le versioni. Il lavoro a distanza consente flessibilità, riduce i costi di spostamento, facilita il focus sui task individuali, ma al tempo stesso riduce la componente identitaria del lavoratore, ne indebolisce il senso di appartenenza a un organismo più grande, toglie non solo i costi, ma anche il valore della socialità, che non ha effetti solo sul benessere individuale ma anche sulla qualità di alcuni risultati e sul potenziale di innovazione di un team.

Non andiamo in ufficio solo per usare il computer (che è diventato mobile) o per farci vedere dal capo (che può vederci anche da lì), ma anche per far succedere tutte le cose che succedono senza essere in agenda, e che fanno parte a pieno titolo della nostra produttività.

Il modello del lavoro del futuro (e del presente) sia quindi ibrido, ma ibrido come? E qui partono le percentuali: da un piccolo sondaggio informale, le organizzazioni più avanzate si stanno assestando sul 50-50 o 40-60 e le altre finiscono col fare notizia sui giornali perché troppo rigide o troppo libere. Tutto bene, quindi: le persone acquistano in media un 50% di flessibilità, le organizzazioni mantengono un 50% di “senso” fisico, di comunità. Eppure, lo scontento prevale, spesso da entrambe le parti.

In una contingenza storica piuttosto unica, siamo passati dal dare per scontata la presenza al lavoro al ritenere acquisita una modalità di lavoro a distanza che invece è ancora tutta da disegnare. Ma, così come il lavoro in presenza ha nei decenni scorsi sviluppato e cristallizzato una serie di prassi, che sono diventate regole pur non rispondendo sempre a chiari criteri di utilità, anche questi due anni di lavoro a distanza hanno originato alcune prassi, giustificate dall’urgenza e rimaste lì a cronicizzare, pronte per diventare regole. Passiamo insomma da una condizione lavorativa non ottimale considerata come l’unica possibile – quella precedente alla pandemia – a una successiva, sempre sub ottimale, giustificata dall’emergenza, atterrando a un misto ibrido delle due come se fosse questa la strada del futuro.

Quindi, forse le persone hanno ragione di volerne sapere di più. E le organizzazioni hanno ragione sul farne un tema da “policy”: servono policy che rendano esplicite le premesse e presentino le ragioni e la direzione, a fondamento di nuove politiche di produttività. Tutto questo merita tempo, ascolto, analisi di quanto si è appreso, e merita che lo sguardo sia rivolto al futuro. La soluzione di oggi merita di essere di più dell’ennesima soluzione “ponte” tra il passato di ieri e quello di domani. Se una visione c’è ed è condivisa, ogni policy diventa un passo verso una destinazione che, pur non essendo dietro l’angolo, può essere intravista, e così motivare lo sforzo verso un cambiamento che altrimenti potrebbe apparire reazionario o confuso.

Il nuovo modo di lavorare ibrido sta dando a molti l’impressione di essere una sottrazione di fiducia, ad altri quella di essere una sottrazione di controllo o di comunità. Il disegno che avevamo atteso, a parziale ricompensa della faticosa discontinuità provocata dalla pandemia, dov’è?

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