Il mondo del lavoro è veramente pronto per vedere “tutto ciò che siamo”?

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Circolano come un nuovo mantra sui social dedicati al mondo del lavoro foto di bambini, cani, situazioni di quotidianità familiare: sembra che stia prendendo piede questa idea di “portare tutti sé stessi al lavoro”, dopo che tutti noi stessi ci siamo mostrati bene o male durante la pandemia, vuoi perché tenevamo il computer in cucina o perché il tema della salute e della gestione vita-lavoro sono entrati di prepotenza nella cultura aziendale. Ci siamo mostrati ed eccoci qui: tutti noi stessi, con relativi carichi di cura, idiosincrasie, complicazioni e passioni, con quella ingombrante verità che in fondo ci rende interessanti… anche se molto difficili da gestire.

Questo movimento ha trovato la propria intersezione con il concetto di diversità, aumentando così di volume. Valorizzare la diversità equivale a valorizzare la complessità: le sfaccettature meno note, le meno “adatte” a un mondo che ha nella quadratura delle regole la propria chiave di efficienza. Portare tutti sé stessi al lavoro diventa così una chiamata ad esprimere anche la propria diversità: una chiamata che nasconde l’auspicio che proprio in quella diversità si celino talenti, motivazione e benessere. Come racconta un recente articolo dell’Economist, il termine “whole self” è diventato di moda: dal “porta tutto te stesso” dell’immobiliare British Land all’intraducibile “Come navigare il posto di lavoro dell’whole self” del sito di notizie Quartz al “tutto te stesso è benvenuto qui” della banca ING, e via così, con variazioni come “il sé autentico” dell’American Bank e il “miglior sé” di Workday.

Ma che cosa si intende con “portare tutti sé stessi al lavoro”? La domanda si può scomporre in alcune sotto-domande che aprono interessanti riflessioni.

1) Vuol dire, come si domanda la psicologa Gail Golden in un articolo su Psichology Today, che si deve spiattellare ai colleghi ogni emozione che si prova: dalla subitanea attrazione sessuale per un vicino di scrivania al senso di noia di certi lunedì mattina? Che siamo invitati, insomma a rimuovere tutti i filtri e a mostrare sempre a tutti tutto quel che siamo e che pensiamo, altrimenti dovremmo sentirci inautentici? Ovviamente no: Golden, l’articolo dell’Economist e un precedente articolo di Tomas Chamorro-Premuzic su Fast Company insistono sul fatto che quel tipo di “whole self” non vuole vederlo nessuno, tanto meno in un posto di lavoro in cui i ruoli sono stati inventati proprio per facilitare le relazioni e conformarsi a delle regole più o meno esplicite.
Pensiamoci: quante cose è ognuno di noi? Secondo le ricerche della mia azienda, Lifeed, che ha una base dati su questo tema di oltre 10.000 persone, noi portiamo in media almeno cinque cappelli al giorno, di cui solo 1,5 sono lavorativi. Essere tutto quello che siamo sempre e ovunque vorrebbe quindi dire portarsi dietro e far digerire agli altri un bell’ingombro!

Non tutto ciò che siamo appartiene al nostro posto di lavoro, ed è sano che sia così.

L’adattabilità, chiave di sopravvivenza della nostra specie, si basa anche su una capacità squisitamente umana di comprendere le situazioni e trovarvi il proprio posto più adeguato, meno faticoso (fittest, diceva Darwin): se quel posto diventa un ruolo, molte decisioni avvengono in automatico, comportando meno fatica. Allo stesso modo in cui cambiamo vestito per occasioni diverse, pur restando sempre noi stessi, i nostri ruoli ci richiedono e ci permettono di esprimere parti diverse di noi.

2) Portare tutti sé stessi al lavoro vuol forse dire che dobbiamo amare i nostri colleghi come amiamo i nostri amici e familiari: che dobbiamo insomma essere amici delle persone con cui lavoriamo e colleghi (o manager) delle persone con cui viviamo?
La scienza ci dice che essere molte cose è normale, come è normale esprimere questi aspetti in modi diversi. Dietro al modo in cui ci comportiamo e alle cose che diciamo, resta però un’unità di intenti che riguarda la nostra strada di efficacia: non è il sentimento ciò che può essere trasferito quando ci si autorizza a usare di più, ma le competenze che quel sentimento innesca e allena, rendendoci efficaci. Un esempio? Nel mio modo di amare i miei figli uso delle competenze come l’ascolto e l’empatia, che si traducono in comportamenti che rafforzano le mie relazioni. Alcuni di questi comportamenti sono più efficaci di altri e lo rivela il loro risultato che vedo ogni giorno con i miei figli: di conseguenza alcuni comportamenti li userò di più e influenzeranno la mia personalità in quel ruolo. Quei tratti sono strumenti di efficacia relazionale che fanno parte di me e avrò a disposizione se porterò quell’aspetto di me anche in altri ruoli. Non dovrò amare il mio collega, insomma, ma saprò ascoltarlo meglio e la nostra produttività ne beneficerà.

3) Portare tutti sé stessi al lavoro è la cosa giusta da fare, è facile ed è utile? Purtroppo no: anche guardato attraverso le lenti delle due domande precedenti, svelare nuove e diverse parti di sé sul lavoro non è facile e non è affatto detto che abbia effetti positivi. La prima ragione, che vale per tutti, è che questa è una nuova cultura, che richiede un nuovo mindset su cui dovremo lavorare molto, perché per farsi spazio deve rompere diversi schemi preesistenti. Le uniformi dei ruoli sono lì da decenni – in alcune forme da qualche secolo – e, pur avendo rivelato molte debolezze, sono fonti di certezza e di semplificazione. Per capire appieno quanto possa rivelarsi finanche controproducente fare lo sforzo di mostrarsi interamente sul lavoro basta guardare il TED di Jodi-Ann Burey, dal titolo “Non dovresti portare il tuo autentico sé sul lavoro”. Questa attivista americana parla dell’esperienza delle donne nere negli Stati Uniti, ma la sua descrizione calza a pennello a tutte le cosiddette minoranze (comprese le donne bianche): Veniamo invitate a partecipare così come siamo e poi riceviamo email che ci spiegano perché dovremmo vestire, parlare, agire diversamente per fittare (entrarci) meglio. Mi viene chiesto di aggiungere alla fatica dell’essere diversa quella di mostrarmi come realmente sono, quando so che questo mi metterà a disagio”.

“Fallo tu il lavoro” è l’invito di Burey a chi nelle stanze del potere siede comodamente: “è la tua festa, le regole le hai stabilite tu: tuo deve essere quindi lo sforzo di farmi sentire al sicuro nel mostrarmi diversa. Altrimenti sembrerà sempre che i nostri corpi siano i benvenuti, ma le nostri voci no”.

In sintesi: bello, necessario e utile parlare di “whole self”, mostrare aspetti nuovi, rompere barriere, ma questa trasformazione – non tanto di ciò che siamo, quanto di ciò che ci contiene, nello specifico i posti di lavoro – non avverrà in modo naturale, non sarà affatto facile. Richiede consapevolezza, intenzione e investimento, soprattutto da parte di chi ha in mano le leve per effettuare la prima, indispensabile trasformazione: cambiare i contenitori.

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