Sono illegittime tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre ai figli. È la decisione, anticipata da un comunicato stampa, con la quale la Consulta manda in soffitta qualunque automatismo sull’attribuzione del cognome paterno e stabilisce che ora il figlio assumerà il cognome di entrambi i genitori nell’ordine da loro concordato, salvo che decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. “Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale” si legge in una nota.
Viene così passato un colpo di spugna su una regola bollata dal giudice delle leggi come «discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio». In attesa del deposito della sentenza, che ci sarà nelle prossime settimane, il comunicato precisa che, «in mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico». La sentenza arriva dopo una camera di consiglio nella quale la Corte ha deciso sulla propria ordinanza di autoremissione n.18/2021. Prima di rispondere al Tribunale di Bolzano, i giudici delle leggi, avevano, infatti, considerato pregiudiziale sollevare un interrogativo più generale autointerrogandosi sulla costituzionalità della regola, prevista dal Codice civile, di assegnare al figlio solo il cognome del padre, sempre e non solo nel caso di figli nati fuori dal matrimonio e riconosciuti.
Il varco aperto nel 2016
Con la sentenza 286/2016, la Consulta aveva già aperto un varco bollando l’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli come «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia», e di «una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».
In quell’occasione la Corte aveva aperto alla possibilità, per i figli nati nel matrimonio, di prendere anche il cognome della madre, in aggiunta a quello del padre, in caso di accordo tra i coniugi. Una “conquista” , anche se parziale, perché la scelta del cognome materno era subordinata al consenso. Ed era datato proprio 2016 il monito al legislatore il cui intervento era considerato “indifferibile”, per una legge organica scritta «secondo criteri finalmente consoni al principio di parità».
Ora la palla passa al legislatore che dovrà regolare alcuni aspetti e sciogliere dei nodi, restando però vincolato al verdetto della Corte costituzionale che, sull’addio all’automatismo al cognome paterno, segna il punto di non ritorno.
Il ruolo del legislatore
Commenta la sentenza storica la presidente della Rete per la Parità Rosanna Oliva de Conciliis, che da anni è impegnata nel riconoscimento del cognome materno. «Sull’ordinanza – sottolinea la presidente Oliva – l’associazione, insieme con InterclubZontaItalia ha presentato una memoria come amici curiae, pienamente allineata al risultato di oggi. Una sentenza storica che contempera due esigenze che sembravano di difficile composizione: riconosce a figli e figlie entrambe le origini, materna e paterna, ed elimina la discriminazione contro le madri, ma permette anche scelte diverse ai genitori, se d’accordo. Governo e Parlamento- aggiunge – devono ora regolare gli aspetti connessi, come la possibilità, nel caso di cognomi composti da più parti, di utilizzarne solo una parte e la trasmissione del cognome alla generazione successiva».
Rosanna Oliva de Conciliis ieri, 26 aprile, aveva partecipato al primo ciclo di audizioni in Commissione Giustizia al Senato che ha all’esame sei disegni di legge e denunciato ancora una volta gli inaccettabili ritardi nell’approvazione della riforma del cognome, e sostenuto che all’impegno del Parlamento deve affiancarsi quello del Governo, per individuare una linea d’azione finalizzata ad assicurare l’approvazione e l’applicazione della Riforma entro la Legislatura nonostante la necessità di coinvolgere le amministrazioni a vario titolo interessate, innanzitutto il ministero della Giustizia e quello dell’Interno.
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