Possiamo parlare di fragilità sul lavoro, perché anche essere feriti è un potere

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C’era un tempo, prima del 2020, in cui la domanda “come stai?” era banale al punto che era possibile non rispondere affatto, oppure farla per poi passare subito, con leggerezza, all’argomento successivo. Da alcune persone ci si aspettava un’alzata di spalle, perché comunque benissimo non si stava mai (o non si diceva), perché comunque la fretta, lo stress, le complicazioni quotidiane… Ma insomma, nella cultura italiana si era tutti d’accordo sul restare in superficie e muoversi, nella risposta, entro certi confini.

Oggi, quando abbiamo la possibilità di farla (perché certo, via video non è che venga sempre così spontanea), “come stai?” si rivela una domanda che scotta, difficile da lanciare semplicemente lì, nel mucchio, come se non dovesse succedere niente. Come stiamo con la guerra, con la pandemia, con il protrarsi dell’incertezza e di questo inverno infinito, come stiamo senza gli altri, senza le vacanze, senza la leggerezza? Non ci resta che rispondere con un’alzata di spalle, come prima, per non dover aprire conversazioni difficili.

Eppure le cose ci succedono, e sono molte quelle che ci rendono fragili. Non è una minoranza di noi, ma la maggioranza di noi a sperimentare la fatica di imprevisti che aprono ferite. Solo nell’ultima settimana, è bastata una pausa più lunga nella fase dopo il “come stai” per ascoltare di genitori operati, figli depressi, amici mancati o persone che hanno scoperto di essere loro stesse malate. Il padre di un ragazzo di 17 anni che nel fine settimana ha manifestato tendenze suicide si scusava per aver saltato una riunione il lunedì, ufficialmente per un’influenza. Quante ferite dobbiamo nascondere a noi stessi e agli altri, ma soprattutto perché? Perché non possiamo dire apertamente se stiamo male, perché non possiamo raccontare di un’operazione, di un dolore, di una paura? Cercando su internet, si trovano liste di istruzioni su come dire al proprio capo che si è malati, e tendenzialmente suggeriscono di farlo in modo conciso, mantenendo il focus sull’aspetto lavorativo, senza perdersi in dettagli.

Ma non c’è etichetta su come parlare delle proprie ferite con i colleghi, e il silenzio segnala un’area di disagio: un’area in cui tolleriamo quantità parziali di informazione perché così abbiamo culturalmente appreso che si fa.

Le ferite, sul lavoro, sono un tabù.

Ma la pandemia su questo ci ha insegnato qualcosa di nuovo. Abbiamo imparato velocemente, tutti insieme, che la malattia riguarda tutti, che l’assenza è possibile in ogni momento della vita, che le fratture avvengono a livello sociale, oltre che individuale. Mentre ci ha resi più fragili e insicuri, questa scoperta ci ha anche aperto la possibilità di cambiare alcune convenzioni, alcune conversazioni. Non è un caso che convenzione e conversazione siano due termini così assonanti: entrambi riguardano il fare insieme, nel primo caso con-venire “venire insieme”, nel secondo con-versare, “trovarsi insieme”. E infatti le conversazioni dicono molto, quasi tutto, della cultura di un’azienda, al punto che ogni azienda sviluppa un proprio codice linguistico, in alcuni casi addirittura un proprio vocabolario.

E allora, se il silenzio su un tema è rivelatore di convenzioni non dette che persistono, come quella che fa delle ferite un oggetto che deve restare estraneo alla nostra identità lavorativa, è proprio dalle conversazioni che è possibile iniziare per instaurare nuove convenzioni. Come ha fatto Manpower Group proprio qualche giorno fa, in un incontro con i dipendenti italiani in cui si parlava di fragilità, prendendo spunto dalla storia di Chiara, una manager che ha da poco scoperto di avere un tumore al seno. Chiara, appena rientrata dalla convalescenza post-operatoria, ha moderato lei stessa l’incontro: lei sin dal primo momento ha deciso molto semplicemente di parlare di quel che stava succedendo. Perché no? Si è detta. Quando qualcuno fa qualcosa di nuovo, improvvisamente sembra possibile.

Oltre la malattia. Il potere nascosto della fragilità” si chiamava l’evento, accostando due parole in apparenza lontanissime tra loro: potere e fragilità. Viene in mente il concetto di “anti-fragile”, ovvero “l’attitudine di alcuni sistemi di modificarsi e migliorare a fronte di sollecitazioni, fattori di stress, volatilità, disordine”, ma qui si dice qualcosa di nuovo e di diverso. Si dice che va bene essere fragili: che la fragilità ha di per sé un potere, che essere fragili è un poter essere. Poter essere vuol dire che posso esserlo, posso dirlo, posso farne una parte visibile di me. Che la ferita, insieme a tutto il resto, mi rende quel che sono. Mi toglie delle cose e me ne aggiunge altre: è dolore ed è potere, è fatica e anche possibilità.

A proposito di nuove conversazioni, The Mighty è un’organizzazione americana per persone ammalate o che si prendono cura di persone ammalate che qualche tempo fa ha chiesto alla propria community di condividere quali talenti avesse sviluppato grazie alla malattia. Ne è uscita una selezione di “34 talenti di persone con malattie croniche”, tra cui:

ho imparato a essere gentile con me stesso
sono diventata più empatica
ho imparato ad accettare di non riuscire a fare alcune cose
ho migliorato il mio senso dell’umorismo
ho imparato a scegliere le mie battaglie
la mia ferita predice il tempo meglio di qualunque servizio meteo
sono diventato incredibilmente paziente
ho imparato a fare quasi tutto stando a letto
ho imparato a essere compassionevole con tutti. Sapere con che cosa convivi senza parlarne rende più facile immaginare che anche altri stiano gestendo sfide simili senza mostrarlo

C’è un tempo nuovo, dopo il 2020, in cui diventa sempre più difficile e anacronistico nascondere che siamo tutti molto di più di quel che stava già stretto prima, dentro ai vecchi margini.

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