Gli uomini fanno la guerra, le donne no. È un dato storico che potrebbe dipendere dal fatto che le donne hanno e hanno avuto più raramente il potere per decidere le guerre. Ma l’antropologia ci dice anche altro. Sorprende, nel primate umano, la capacità di stare a lungo in compagnia di altri della sua specie senza manifestare aggressività. In cambio, abbiamo neuroni che riflettono i sentimenti dei nostri pari, i neuroni specchio, rendendoci inevitabile l’empatia, l’immedesimazione. Avviene perché la nostra sopravvivenza dipende dalla nostra capacità di proteggere e prenderci cura gli uni degli altri: immaginate che cosa sarebbe di un neonato senza cure – e ricordiamoci fino a che età ne abbiamo bisogno, per poi richiederle ancora quando siamo feriti, malati, non autosufficienti. Non a caso, i resti di un uomo con un femore rotto e poi guarito furono indicati dall’antropologa Margaret Mead come il primo segno della presenza di una civiltà.
Se non c’è civiltà, un essere vivente non sopravvive a un femore rotto.
La civiltà nasce dalla nostra capacità di stare insieme a degli estranei e, a differenza di un gruppo di babbuini che non appartengono alla stessa tribù, non attaccarci ma collaborare. Lo facciamo ogni giorno. Se una persona inciampa e cade per strada, sono degli sconosciuti ad accorrere ed è naturale farlo. Lo fanno uomini e donne perché la capacità di prendersi cura non ha genere.
Ma l’istinto verso l’attacco (e la fuga) è maschile. E lo è perché è stata la strategia di sopravvivenza, si potrebbe quasi dire la ragione dell’esistenza, del genere maschile della specie umana per qualche centinaio di migliaio di anni. La capacità di cacciare per nutrire se stessi e la propria famiglia, e con le stesse competenze difendersi, ha “cablato” il cervello maschile: reagire a stimoli ormonali di paura o di stress con l’attacco o con la fuga è diventato naturale per l’uomo, infatti avviene a livello biologico.
Se un meccanismo evolutivo ha avuto successo, la biologia lo premia con la produzione di ormoni che fanno sentire bene, e questo avviene quando reagiamo nel modo più istintivo a uno stimolo arcaico come la minaccia. La cultura vi ha sovrascritto, con la sua influenza su regioni più evolute del cervello, la capacità di gestire questo istinto e di reagire diversamente. Ma farlo richiede uno sforzo quasi consapevole.
Negli stessi trecentomila anni, però, le donne non cacciavano e, se potevano evitarlo, non combattevano. Qual era dunque il “loro” meccanismo evolutivo vincente? È importante saperlo perché è ancora dentro di noi. Per che cosa erano utili le donne: quale comportamento veniva e viene ancora oggi premiato dalla produzione di ossitocina, indicando che era (e ancora è?) qualcosa di buono per la specie umana? Non sorprende scoprire che le donne avevano il compito della cura.
La Natura assegna compiti precisi e di rado spreca e il ruolo delle donne è sempre stato vitale quanto quello degli uomini. Nutrimento e cura: non possiamo fare a meno di nessuna delle due cose. L’istinto delle donne di fronte a una minaccia, come è stato dimostrato da ricerche condotte negli anni 80, non è quello di scappare né quello di attaccare, ma è quello di prendersi cura e di creare alleanze. Le donne quindi evitano il conflitto, che produce in loro una reazione biologica di forte stress perché mette in pericolo i piccoli, e reagiscono al pericolo accudendo i più deboli e cercando alleati.
Se lo fanno, stanno meglio, perché è naturalmente la loro inclinazione, la funzione che hanno avuto per centinaia di migliaia di anni e le cui tracce sono ancora nei loro cervelli.
Per questo le donne, istintivamente, non farebbero mai la guerra. La guerra costa fatica e paura sia agli uomini che alle donne, ma alle donne di più. Ed è per questo che – adesso che la nostra civiltà è diventata così avanzata da sconfiggere una pandemia in pochi anni e così consapevole da non poter più ignorare la connessione esistente a livello mondiale tra tutte le nostre scelte – le donne non possono più permettersi di stare un passo indietro. Anche andando contro il proprio istinto, che è quello di seguire e prendersi cura di chi è debole e cade – di riparare agli errori, insomma – è ora che le donne trovino il senso di uno stare in prima linea che le chiama a portare la propria capacità di cura nel mondo. I cambiamenti in corso sono diventati troppo grandi per sopportare che a influenzarne la gestione sia esclusivamente un istinto di “attacco o fuga”, restando in un gioco a somma zero: il mondo ha bisogno, per sopravvivere, di persone che reagiscano alle crisi con la volontà di prendersi cura e di creare alleanze; e che questa, ancora più che una competenza, sia una vera e propria pulsione.
È una chiamata per le donne, forse l’ultima della nostra civiltà così come la conosciamo. Non si tratta di imparare le regole esistenti per prendere il potere, ma di prendere il potere per poterle cambiare.
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