Cosa significa essere leader? Consulenti, manager, esperti di organizzazioni tentano di dare una risposta a questa domanda da sempre. Il concetto di leadership evolve e si trasforma nel tempo, affiancandosi a termini via via nuovi: trasformazionale, situazionale, emotiva, gentile. La figura del leader assume oggi sempre più consistenza, perché sempre più consistenza assume la dimensione di persona.
Si chiede ai leader e alle leader di gestire obiettivi e performance e, parallelamente, dimensione umana e psicologica. Più si va avanti, più la leadership sembra prendere le sembianze di un superpotere e si finisce per richiedere ai manager competenze e sensibilità per nulla scontate e non per forza raggiungibili a prescindere.
Se il focus sulla prestazione caratterizza da sempre l’azienda, diverso è quello sulla relazione, diventato essenziale solo più recentemente. La pandemia ha poi fatto un passo in più: ha reso evidente a chiunque la dimensione psicologica nelle organizzazioni. Ai leader si chiede oggi di essere attenti al benessere mentale, di saper gestire vulnerabilità ed emozioni, di ascoltare, accogliere, riconoscere la dimensione psicologica delle persone. Tutte competenze senz’altro allenabili, ma sebbene qualsiasi disciplina sportiva sia praticabile a livello dilettantistico, pochi diventano agonisti, ancora meno campioni olimpici.
Quello che serve è il limite. È essenziale formare i manager su queste tematiche, ma è ancor più necessario insegnare loro fin dove è lecito e sicuro che arrivino. Le aziende hanno bisogno di psicologia, ma non possono essere i responsabili a fare (anche) gli psicologi. O per lo meno, non solo. Ai manager vanno garantiti strumenti per interpretare e gestire la sfera del benessere mentale esattamente come vanno garantiti a chiunque, a prescindere dal ruolo.
Cresciamo imparando l’importanza dello sport e della corretta alimentazione, ma nessuno ci insegna la centralità della dimensione psicologica. Diventiamo adulti e, salvo eccezioni, continuiamo a ignorare o sottostimare questo aspetto fondante della nostra vita. Entriamo in azienda, diventiamo manager e ci viene chiesta una sensibilità che il più delle volte non abbiamo perché nessuno ci ha mai trasmesso.
Eppure, oggi è più che mai necessaria. Il lavoro sta infatti assumendo un ruolo e un peso diverso nella vita delle persone: viene investito di aspettative, vissuti, bisogni. Il carico relazionale è sempre più presente: non a caso, il burnout non è più solo prerogativa delle professioni d’aiuto – caratterizzate per definizione da una forte dimensione emotiva – ma può emergere in qualsiasi contesto organizzativo.
Le alternative, a questo punto, sono due: formare chi ha ruoli di responsabilità – migliorando, parallelamente i processi di selezione – oppure, accettare l’idea che non si possa essere tutto. A tal proposito, può essere allora funzionale prevedere nuove figure professionali all’interno delle organizzazioni, con focus specifico su relazione, psicologia e benessere mentale. Ruoli come quello di Chief Happiness Officer o di Chief Mental Health Officer sono l’esempio di un primo passo in questa direzione, ma è possibile immaginare molto di più.
Quello che è evidente, è che la dimensione psicologica è finalmente emersa in superficie anche sul lavoro e tale resterà. La sfida, ora, è capire come gestirla: incanalarla in competenze da far sviluppare alla leadership o trasformarla in ruoli organizzativi inediti, coinvolgendo chi ha un background in studi psicologici?
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