Che cosa succede a chi molla? Questa domanda è diventata di attualità da quando l’americanissima Simone Biles, icona del riscatto di una generazione, ha abbandonato le Olimpiadi. Gli Americani, che da sempre hanno considerato la voglia di vittoria un dio da venerare, si sono trovati a domandarsi che cosa rappresentasse una tale resa, che nome darle.
Che cosa succede a chi molla è anche la domanda che non possiamo non farci davanti al fenomeno delle Grandi Dimissioni che sta travolgendo il mondo occidentale. Centinaia di migliaia di persone “lasciano”, spesso non sapendo che cosa verrà dopo: lasciano perché si sono improvvisamente accorte che la loro quotidianità era il frutto di una scelta, e non un destino inevitabile.
Come accorgersi se siamo destinati alla stessa fine: a mettere in discussione tutto ciò che davamo per scontato per aprire strade ignote, inesplorate? Un senso di “illanguidimento” di fronte alla nostra vita quotidiana è quel che, a detta dello psicologo Adam Grant sul New York Times, potremmo sentire come effetto dello stress post traumatico da covid: non una vera e propria infelicità ma un non senso di realizzazione improvvisamente visibile, che rivela la nudità delle scelte che ci hanno portato a essere quel che siamo rispetto alla realtà di quel che nel frattempo siamo realmente diventati.
Detta in modo più semplice: oggi siamo il risultato di scelte passate, ma non siamo più quelli del passato, e la pandemia ha creato una discontinuità che ci ha aperto gli occhi. Stagnazione, è un altro termine usato da Grant, e di stagnazione parlava anche lo psicologo Erik Erikson riferendosi a una fase della “seconda vita adulta” in cui noi potremmo naturalmente fiorire, restituire al mondo un po’ di quel che abbiamo preso, perché abbiamo maturità, energie e capacità per farlo, ma corriamo anche il rischio opposto: se non riusciamo a rendere queste forze generative, possono portarci all’auto assorbimento, alla (appunto) “stagnazione”. Stagna ciò che non trova una direzione, e quanto più grande è il potenziale, tanto più, se trattenuto, ci porta a implodere: a vedere solo noi stessi, rinchiudendoci in un mondo molto piccolo e senza speranza. Anche perseverare in gare che non ci appartengono più è un modo di stagnare, per quanto possa suonare contro intuitivo. Perché ci hanno insegnato che è forte chi tiene duro: chi non lascia il cammino intrapreso, chi finisce ciò che ha iniziato. Ma non solo.
Teniamo duro anche perché abbiamo un pregiudizio potentissimo che non ci fa vedere i costi nascosti del perseverare. Nel business c’è un modo dire molto efficace: “cut loss”, ovvero ferma la perdita. E’ ciò che si fa quando ci si accorge che un’attività spreca più risorse di quante è destinata a generare. Ma non è sempre ovvio: spesso si arriva a fare queste considerazioni molto tardi, perché nel frattempo l’attività già avviata ha assorbito molte risorse, e ci si vorrebbe illudere di non doverle “buttare via” chiudendo tutto.
E’ un po’ come dirsi che interrompere una relazione che dura da anni equivale a “buttare via” quegli anni. Allo stesso modo, potremmo vedere in ogni cambiamento un sacrificio del passato: se non sono più “quella cosa” vuol dire che butto via il fatto di esserlo stata? E, per questo motivo, resto in una scatola che contiene una vecchia idea di me?
Sono pensieri faticosi. Lo sono perché, appunto, ci hanno detto “guai ad arrendersi!”. Lo sono perché cambiare idea è considerata l’ammissione di un errore, e l’errore qualcosa da punire. Lo sono perché molto spesso a dare un senso alle nostre scelte è l’illusione di star seguendo una ricetta “giusta”, e come risultato vorremmo solo un piatto ben cucinato. Invece cambiamo: noi, gli ingredienti, i gusti, e anche il sapore che il tempo dà alle cose.
Adam Grant fornisce delle soluzioni per ovviare al senso di illanguidimento che, alla lunga, potrebbe avere ragione di noi. Parla di “flusso”: di trovare oggetti su cui riversare il nostro impegno per riaccendere il senso di ciò che siamo. Annamaria Testa in un articolo su L’Internazionale propone anche una soluzione alternativa molto allettante: restare a letto a guardare serie TV per tutto il giorno. Io, che in questi giorni risento dell’inverno e di una fatica troppo a lungo coltivata, mi sono data tre vie d’uscita piccole piccole, tre modi banali di recuperare un tempo breve – che mette a riposo la mente perché la riconduce al presente:
1) mi guardo intorno e, situazione per situazione, persona per persona, mi ricordo che non dipende tutto da me, anzi: quasi niente dipende da me. Anzi: niente dipende da me.
2) Vado a pallavolo e gioco meglio che posso in una sfida maschi contro femmine (che ho proposto io): salto a muro come mai prima, mi butto su ogni palla. E perdo, ma abbiamo giocato bene.
3) Mi preparo, con un senso di resa che consola, a un weekend che sarà pieno di impegni familiari (porta e prendi i figli, cene di Natale anticipate, open day, inviti da restituire) e che quindi non mi lascerà tempo per fare altro che stare con loro, minuto dopo minuto, godendomi la mia esistenza da comprimaria, senza sentirmi frustrata per tutto quello che “non sto facendo accadere”.
Mollo, insomma. Per vedere che cosa mi propone la vita.
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