Quante volte le persone, che provano a spiegare qualcosa che conoscono, risultano poco efficaci nella spiegazione stessa? Mi capita ogni tanto di osservare il più piccolo dei miei figli che a 5 anni prova a raccontarmi il gioco che ha fatto a scuola. Il fascino è che lo racconti partendo dalle proprie emozioni e da tutto ciò che conosce relativamente alla giornata che ha trascorso. La sua storia è fatta di suoni e di parole che a volte appaiono incomprensibili a chi lo sta ascoltando. Per molto tempo mi sono detto: “ma lui è un bambino, per lui è difficile.” In realtà, come tante persone più adulte e molto preparate nei contenuti che vogliono esporre, anche lui è vittima della così definita “maledizione della conoscenza”.
Che cos’è questa “maledizione”? Elizabeth Newton, dottoranda in psicologia alla Stanford University, nel 1990 scrisse una tesi dal titolo “Overconfidence in the communication of intent: heard and unheard melodies” (Eccessiva sicurezza nella comunicazione di intenti: melodie ascoltate e non sentite). Il progetto della Newton era articolato attorno ad un piccolo esperimento: in un semplice gioco di ruolo alcuni partecipanti diventavano “tapper” (tamburellatori) ed altri “listener” (ascoltatori).
Ogni tamburellatore aveva a disposizione un “sofisticatissimo” strumento: le proprie dita della mano con cui avrebbe dovuto ritmare sul tavolo alcune canzoni. Gli ascoltatori avrebbero dovuto riconoscere la canzone riprodotta dai “tapper”. L’Inno nazionale americano ed Happy Birthday guidavano una lista di 25 canzoni, famosissime in America, che venne consegnata agli ascoltatori. Tra le canzoni di questa lista si sarebbero dovuti riconoscere i ritmi prodotti dai “suonatori”.
Durante il gioco vennero tamburellate 120 canzoni e gli ascoltatori ne riconobbero solamente il 2,5%, 3 su 120. A livello di comunicazione questo dato appare fortissimo: il messaggio è stato trasmesso 1 volta su 40. Prima dell’esperimento le stime prevedevano che sarebbe stata riconosciuta almeno una canzone su due.
Se ognuno di noi provasse a tamburellare l’Inno di Mameli con le dita su un tavolo, ascoltando il rumore dei suoi polpastrelli, avrebbe chiarissimo il ritmo che sta riproducendo. Questo accadrebbe a tutte le persone che già conoscono il titolo della canzone. Ognuno sente la melodia nella propria mente. Le persone che stanno ascoltando però, non ricevono quella stessa melodia bensì una serie di battiti che facilmente possono apparire scollegati. Risultato: gli ascoltatori riterranno chi tamburella incapace di farsi capire, al contrario chi produce il suono non crederà possibile che qualcuno non riconosca la canzone.
Così come i tamburellatori, che hanno la canzone nella testa, anche chi comunica ha ben chiara la “melodia” di ciò che vuole raccontare. Chi ascolta, però, non conosce ancora il punto di partenza del pensiero che vuol esser comunicato come chi sente il suono delle dita sul tavolo non ha presente la melodia. La maledizione di chi comunica è proprio quella di non rendersi conto di cosa possa voler dire ascoltare un racconto senza la stessa pregressa conoscenza di chi parla.
Questo fenomeno viene definito in psicologia “maledizione della conoscenza”. Una volta che qualcuno di noi conosce un argomento, risulta difficile mettersi nei panni di chi non ne sa nulla a riguardo e impostare una comunicazione che tenga presente questo aspetto. Nel concreto è molto difficile quando si padroneggia un contenuto ricreare nella propria mente una condizione di assenza di conoscenza simile a quella di chi ascolta e per questa ragione diventa più difficile condividere quello che si sa in un modo facilmente comprensibile anche dagli altri.
I risultati dell’esperimento di Elisabeth Newton possono esser facilmente ricondotti all’esperienza quotidiana. Sono tante le situazioni durante le quali ognuno di noi prova a spiegare, comunicare o raccontare qualcosa dimenticandosi che nella fase dialogica chi parla ha ben chiara la melodia, mentre chi ascolta ancora non la conosce.
Come spezzare la maledizione?
In che modo la comunicazione può spezzare la “maledizione della conoscenza”? Le caratteristiche a cui deve pensare chi vuol raccontare qualcosa che posso non cader preda di tale maledizione possono essere condensati in sei concetti:
Semplicità: una comunicazione semplice ha al centro il cuore dell’idea che vuole trasmettere, e deve essere in grado di distillare l’essenziale. Rendere semplice un’idea che abbiamo in testa ci costringe a suddividerla per punti e a pensarla come se dovessimo trasferirla ad un bambino. Così facendo ci si protegge dalla “maledizione della conoscenza”. Una tecnica utile allo scopo è quella della piramide rovesciata: si pensa subito al “centro” dell’idea, all’aspetto più importante, a come argomentarlo e via via ad approfondirne i dettagli. Questo costringe a stabilire delle priorità e a trasferire un messaggio lineare e ricco di spunti che facilitino le riflessioni degli altri.
Sorpresa: una comunicazione d’impatto deve stimolare stupore e curiosità. Appare importante che possa produrre in chi ascolta la voglia di far domande per comprendere la famosa “melodia tamburellata” che potrebbe non essere stata espressa. Anche nel comunicare bisogna essere in grado di rompere gli schemi abituali. La sorpresa sostiene il cuore del messaggio, generando in chi ascolta la voglia di scoprirlo.
Credibilità: è fondamentale fare in modo che chi ascolta dia credito al messaggio veicolato. Sforzarsi di corredare le informazioni, attraverso dati o collegamenti a fonti autorevoli, può favorire una maggior predisposizione alla comprensione. La ricerca di tali dati e tali fonti e la loro esplicitazione trasforma la nostra “conoscenza maledetta” in un sapere credibile, verificabile e comprensibile per chi ascolta
Concretezza: le comunicazioni astratte si perdono più facilmente nei pensieri e vengono spesso dimenticate. Chi ascolta ricorda con maggiore facilità il pragmatismo dietro ad un messaggio. Purtroppo, più si padroneggia e si approfondisce un contenuto, più si corre il rischio di trasferire il messaggio attraverso concetti astratti. L’abilità sta nel continuare ad approfondire restando vicini a situazioni concrete che allontanino il pericolo di volare troppo in alto.
Capacità di emozionare: è la leva “emozionale” che fa emergere la curiosità in chi ascolta e porta con sé la volontà di comprendere anche ciò che non è stato recepito in prima battuta. Interrogarsi su come stimolare le emozioni in chi ascolta, può esser un buon modo per superare i propri schemi e i concetti predefiniti. Questo favorisce una maggior chiarezza comunicativa e permette di non dar per scontati temi a noi noti che potrebbero però non esserlo per gli altri.
Story telling: la possibilità di inserire storie all’interno della propria spiegazione genera un’attivazione mentale che rievoca sensazioni, stimolando interesse nell’ascoltatore. Non è facile scegliere un racconto o addirittura ideare una storia calzante con quello che si vuol comunicare; tuttavia, provare a farlo ci costringe a analizzare consapevolmente il messaggio che vogliamo lanciare così da abbattere la melodia nella nostra testa, spezzando la maledizione della conoscenza. L’efficacia comunicativa viene ampliata dalla riflessione e sarà legata alla storia che, come una canzone, risuonerà nella mente di chi l’ha ascoltata e guiderà nella comprensione o nel ricordo di ciò che è stato detto.
In conclusione, mi auguro che la melodia di questo articolo, tamburellato sui tasti del pc, sia stata letta come la canzone nella mia mente, e non sia stata solo sentita come un insieme di suoni assembrati dalla mia “maledizione della conoscenza”.
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