E’ l’argomento del giorno, la fonte di ansia del momento e al tempo stesso la nostra grande opportunità di cambiamento: il passaggio dal lavoro da remoto a un modello di lavoro ibrido, in grado di mettere insieme il meglio di entrambi i mondi e di portarci nella prossima fase evolutiva del lavoro umano.
Dalla fase uno alla fase due è stato relativamente semplice perché non c’era alternativa: da “tutti in ufficio” a “quasi tutti a casa”, da un giorno all’altro come nemmeno nei progetti pilota più arditi si era mai immaginato di fare, il classico “salto evolutivo” inaspettato e determinato da fattori esterni (come le glaciazioni, per intenderci).
Adesso però il pallino è in mano a noi: adesso possiamo scegliere, dopo aver avuto il (difficile) privilegio di poter vedere piano A e piano B. Il paradosso è che proprio la possibilità di scegliere – avendo a disposizione tutti gli strumenti necessari per cambiare ciò che non funzionava sin da prima e apprendere da ciò che non ha funzionato nemmeno dopo – ci paralizza, soprattutto come organizzazioni, sistemi pensanti che al cambiamento oppongono una resistenza naturale e in cui è molto forte la tendenza al ritorno agli errori già noti.
Per questo da molti ricercatori sul tema del lavoro questo periodo viene definito “fragile”: tra una mentalità vecchia, che le persone non sono disposte a sposare ancora, e una nuova, che deve ancora trovare la propria espressione, il rischio è quello di perdere risorse ed energie per strada, ed è un rischio che le imprese non possono permettersi.
La professoressa Tsedal Neeley, che da oltre 20 anni studia le modalità di lavoro remoto, virtuale e globale, e che a marzo ha pubblicato il libro “La rivoluzione del lavoro da remoto”, ha commentato in un recente articolo:
“Tutto o niente è facile, quando sono tutti in ufficio o tutti da remoto. Ma col lavoro ibrido si parla di un mix, ed entriamo in una zona grigia in cui le persone si domandano “come sarà la versione definitiva?”. E’ comodo pensare a modalità di lavoro temporanee, diventa difficile se pensiamo a come dovrebbe apparire il nostro modo di lavorare nel lungo termine e a come indirizzarlo nella giusta direzione”.
I consigli della professoressa su come tollerare questo livello di responsabilità e spingerlo nella direzione di un’evoluzione sana si possono agevolmente agganciare ad alcune delle molte storie che abbiamo sentito in questo periodo.
1) quanti colleghi ci hanno raccontato che durante la pandemia hanno “passato 40 giorni al mare, ma lavorando più che mai e meglio che mai”? Da tempo sapevamo che la flessibilità è un motore di produttività, ma questo grado di inaspettata autonomia ha veramente consentito alle persone di trovare il proprio modo di lavorare. Di esprimere creatività nel farlo, di concedersi sperimentazioni che altrimenti li avrebbero fatti sentire troppo a rischio di errore, addirittura di dirlo apertamente, che la vista del mare (per esempio) li fa lavorare meglio. Eppure alcune aziende hanno chiesto espressamente che le persone non vadano a lavorare dai luoghi di villeggiatura, oppure ostacolano il remote working il venerdì per evitarlo. Che cosa succederà in questo modo a quel 70% di persone che la pandemia ha reso più produttive, secondo i sondaggi di Neeley?
2) questa mattina un amico bancario mi raccontava che lavorare da un’altra regione gli ha consentito di stare vicino alla madre in un periodo difficile perché si era rotta il femore. E’ uno dei mille e mille casi in cui il lavoro da remoto ci ha consentito di riscoprire dimensioni familiari e di cura, di essere presenti pur continuando a essere produttivi, e di sentirci orgogliosi di noi stessi per questa capacità di essere molte cose allo stesso tempo. Maggiori strati di umanità visibili, tollerati, benvenuti, in aree tradizionalmente off limits come l’orario di lavoro e lo spazio fisico delle riunioni: un’estensione dell’immaginazione che ha portato a un avvicinamento identitario con il proprio ruolo lavorativo, e quindi con la propria azienda.
“La ricerca ha mostrato che incoraggiare aperture in questa direzione, nel rispetto dei confine della vita dei collaboratori, aiuta a creare fiducia tra i colleghi, così come a indurre un senso di maggiore impegno nei lavoratori che si sentono maggiormente visti e valorizzati” commenta Neeley. “Se questo aumenta il livello di lealtà verso l’azienda? Assolutamente sì”.
3) “Dormo male, sono in ansia perché mi sembra di aver perso il controllo”: non sono pochi i manager che oggi si sentono così. Riportare le persone in ufficio può calmare provvisoriamente l’ansia della perdita del controllo, secondo il vecchio paradigma del presenzialismo. E allora ecco che il remote working viene ridotto a tre, due, una giornata a settimana, viene addirittura fruito a mezze giornate (perdendo ogni senso ambientale), in un’ardua rinegoziazione top down tra azienda e lavoratori. La negoziazione ha come partita implicita quella del controllo, ma dietro a questa ce n’è un’altra molto più importante, ed è la partita della fiducia.
“Tutti i dati che iniziamo a raccogliere dimostrano che le persone si risentono quando vengono forzate a tornare in ufficio. Dicono: ti sei fidato di me durante la pandemia, come mai non ti fidi più?” conclude Neeley.
Nella complessità tra prima e dopo, insomma, e in questo abisso di libertà che le tecnologie ci danno nel poter scegliere come e dove lavorare, l’unica chiave veramente a nostra disposizione è quella della fiducia. Continuare a fidarci dei nostri colleghi e collaboratori (e di noi stessi): della nostra capacità di adulti di essere autonomi e responsabili, di sapere e voler fare il nostro lavoro, di voler sperimentare ancora come farlo sempre meglio, e non di aver bisogno di essere governati e controllati… come nemmeno con i bambini si fa più.