Sembra che proprio ciò che funzionava nell’essere parte di una comunità economica abbia smesso di funzionare con il Covid: questo si mormora negli Stati Uniti per spiegare il protrarsi e inasprirsi del fenomeno delle “Grandi Dimissioni”. Le persone hanno scoperto di poter consumare meno e di poter quindi vivere con meno, e questo gli sta consentendo di cercare strade alternative all’idea tradizionale di un lavoro a cui dare tutto: un lavoro che, più che un ruolo, negli ultimi 50 anni aveva finito col diventare un’identità divorante, quasi una religione. Si tratta di un movimento di opinioni e di intenti di cui in Italia arriva solo l’eco, per ora, ma, conoscendo la capacità di colonizzazione culturale degli Stati Uniti, non tarderemo a farne oggetto di dibattito anche qui.
Non c’è da preoccuparsi, ma da riflettere: c’è molto da mettere a posto nel nostro modo di lavorare, e niente come una crisi è efficace per far intuire nuove possibilità anche laddove da decenni le regole sembrano immutabili. Il Covid ci ha fatto sperare in un cambiamento che in fondo in fondo temiamo finirà col non avvenire, mentre già presentiamo e pratichiamo un ritorno alle vecchie abitudini, al traffico, al bisogno di vedersi di persona non solo quando serve ma anche quando “le circostanze lo richiedono”.
Stiamo tornando in trappola? E’ così facile tornare a “oggettificarci”: a vederci come meri strumenti di un sistema produttivo da cui tutti dipendiamo, o così crediamo? Il tema dell’oggettificazione offre una prospettiva interessante su alcune delle grandi sfide di sostenibilità umana che il mondo del lavoro presenta oggi: ne parla il giornalista Arthur Brooks nella sua colonna settimanale su “Come farsi una vita” sull’Atlantic, partendo nientepopodimeno che da Karl Marx.
Marx, ci ricorda Brooks, nel saggio del 1844 “Il lavoro estraniato” diceva che, col sistema capitalistico:
“L’attività spontanea dell’immaginazione umana, del cervello umano e del cuore umano, opera in modo indipendente dall’individuo, appartiene a un altro: è la perdita di sé stesso”.
I lavoratori, conclude Brooks, vengono oggettificati, ridotti a gusci infelici. Il termine oggettificazione viene usato in Italia soprattutto per parlare di discriminazione sessuale:
“L’oggettificazione sessuale od oggettivazione sessuale consiste, in un’accezione perlopiù negativa, nel considerare una persona alla stregua di un oggetto mirato ad appagare desideri sessuali”.
Ma Brooks riconduce il termine a una modalità di considerare le persone, marxianamente, come strumenti di produzione: effetto dell’approccio religioso di cui sopra, in cui il lavoro è un tutto di cui le persone fanno parte e non viceversa.
Eravamo nell’ingranaggio e, come spesso accade in questi casi, non lo vedevamo nemmeno. Ne siamo usciti a causa di un urto violento e improvvisamente lo abbiamo visto. Cosa fare adesso? Intanto è importante che se ne parli: uno dei modi più efficaci di rompere gli stereotipi è quello di portarli alla luce. Ed è molto, molto difficile tornare indietro, smettere di vedere qualcosa dopo averlo visto una prima volta. Poi è utile considerare che risolvere l’oggettificazione risolverebbe anche alcune delle questioni più pressanti che si trovano a gestire le aziende oggi in ambito capitale umano.
1) Quando l’oggettificazione è prodotta dall’ambiente, e quindi è l’ambiente a far sì che la persona che vi entra venga vista in modo parziale e depotenziato, si ha il fenomeno della discriminazione: l’oggettificazione sessuale è un esempio, ma ne esistono molti altri, tanti quanti sono gli ostacoli che ogni forma di diversità sperimenta oggi nel farsi vedere, accettare e valorizzare.
2) Quando l’oggettificazione è prodotta dallo stile manageriale si ha il fenomeno del “boss tossico”, quello che vede, usa e misura le persone come dei meri strumenti di produttività, abbassandone motivazione, benessere ed efficacia. Di questa pratica esiste addirittura un indice che ne misura danni e conseguenze.
3) Esiste però anche l’auto-oggettificazione, ed è forse il fenomeno più insidioso: siamo proprio noi spesso a sentirci e a presentarci come una versione ridotta di noi stessi, identificandoci con la sola dimensione lavorativa. Con quali conseguenze? Proprio quelle che avevamo smesso di vedere pre-covid e che adesso ci appaiono chiare davanti agli occhi: perdita di dimensioni identitarie che ci arricchiscono e ci ricaricano, e quindi perdita di capacità e di risorse di cui la mono dimensionalità ci priva. Si va dall’autostima al senso stesso della propria esistenza, che ovviamente influenza la nostra capacità di sentirci efficaci e agenti attivi nel mondo in cui viviamo.
Nella religione si crede ciecamente, mentre il lavoro è sempre il risultato di scelte che la mobilità futura ci farà mettere in discussione ogni giorno, spingendoci a domandarci chi siamo, quante cose siamo e quanta parte di noi dare ad ognuna. Ognuno di noi diventa così il “tutto” di partenza in cui far entrare dimensioni come lavoro, famiglia, passioni: un’ampiezza di prospettive che può spaventare, ma che ci rende più adatti a vivere la complessità del mondo che ci attende.
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