Più stanchi, con un legame anche troppo stretto con le tecnologie, faticano a dormire. Appaiono così, agli occhi dei loro genitori, i bambini dopo quasi due anni di pandemia, secondo una recente ricerca. I problemi del lockdown non sono più all’ordine del giorno, per fortuna, ma per i bambini – come d’altra parte per gli adulti – gli effetti sul benessere psicofisico di questo che è un vero e proprio trauma collettivo si fanno sentire anche adesso. In che modo?
Come sono cambiate abitudini, comportamenti, ritmi, regole, stati emotivi dei bambini, dal punto di vista dei loro genitori? E, nel secondo lockdown, si è ritrovata traccia di quel malessere fisico e psicologico di cui molti pediatri e psicologi avevano evidenziato l’insorgenza? La Società italiana delle cure primarie pediatriche con la collaborazione di un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e della spin off dell’Università di Milano-Bicocca “Bambini Bicocca” ha condotto due ricerche, a distanza di un anno l’una dall’altra, dal titolo: “Bambini e lockdown, la parola ai genitori“. L’obiettivo primario era esplorare le percezioni e le opinioni dei genitori di bambini di età compresa tra 1 e 10 anni, al fine di avere uno spaccato dell’esperienza dei piccoli durante il “secondo lockdown”, monitorando anche gli eventuali cambiamenti di emozioni e comportamenti rispetto al primo periodo di restrizioni e di permanenza forzata a casa. Scopo altrettanto importante della ricerca è stato ampliare le informazioni a disposizione dei pediatri e degli educatori, figure chiave per l’avvio di processi di supporto e di educazione alla “salute sociale” in prospettiva territoriale e di comunità. Ascoltare quindi la voce dei genitori per mettere a punto strumenti e proposte interdisciplinari di supporto alle famiglie per la fase di ritorno alla vita sociale post pandemia.
“Alimentazione e sonno – afferma Marina Picca, Presidente SICuPP Lombardia- continuano a essere messi a dura prova. Rispetto ai dati del 2020 abbiamo osservato un miglioramento, ma persistono elementi di preoccupazione. Un dato nuovo non indagato nella ricerca del 2020 è la presenza di malessere fisico nei bambini soprattutto in età scolare. La persistenza di alcuni comportamenti che testimoniano malessere della salute mentale e fisica destano preoccupazione e impongono la necessità di investire maggiormente nel sostenere i bambini, i genitori e le famiglie“. Nei bambini tra 1 e 5 anni in particolare sembrano essere diminuiti irritabilità e capricci, ma permangono disturbi dell’appetito, un aumento del consumo di snack e ripetuti risvegli notturni. Inoltre un quarto degli intervistati ha notato sentimenti di tristezza e malinconia nei figli. E’ come se fosse intervenuta una forma di “rassegnazione”, associabile ad aspetti più “depressivi”, legata al ripetersi di una situazione già vissuta e il cui trauma è ancora troppo vivo e recente per suscitare una reazione più vitale: le energie a disposizione sono poche.
C’è da dire anche che i più piccoli assorbono prepotentemente la vita emotiva dei genitori, la fanno propria, perciò bisognerebbe valutare puntualmente anche, in ogni nucleo familiare, il tipo di reazione che i bambini hanno osservato negli adulti di riferimento. Nei bambini in età scolare, tra i 6 e gli 11 anni, è stato indagato, come accennato sopra, un dato nuovo, non preso in considerazione nella prima edizione dell’indagine, ossia la presenza o meno di disturbi di “malessere” fisico nei bambini: ne hanno sofferto circa il 40% dei bambini della scuola primaria (in particolare cefalea, mal di pancia, stanchezza, disturbi agli occhi). Possiamo quindi parlare di “somatizzazione”, un processo noto agli psicologi attraverso cui il corpo cerca di “scaricare” ansie e preoccupazioni che sono, per vari motivi, al momento impossibili da elaborare in altri modi. In questo caso ovviamente la somatizzazione deriva dalla situazione di forte stress a cui i più piccini sono stati sottoposti: drastica riduzione della vita sociale, costrizione all’immobilismo, impossibilità di fare attività sportiva, contatto ravvicinato con adulti preoccupati e ansiosi, ma rimane molto importante monitorare l’intensità e la durata di questi sintomi. Se si protraggono per troppo tempo può essere davvero utile chiedere aiuto a professionisti.
Sempre nell’età 6-11 è stato osservato un peggioramento del rapporto adulti-bambini, dato in controtendenza con la prima rilevazione del 2020. Un dato che testimonia la stanchezza emotiva del sistema-famiglia, in cui le tensioni si muovono alla stregua di un boomerang e si trasmettono di continuo dagli uni agli altri membri del nucleo familiare. Il digitale si è dimostrato un aspetto sempre più rilevante nella vita dei bambini: il 58, 4 per cento dei bambini tra i 6 e i 10 anni possiede un device personale, percentuale in netto aumento rispetto al primo lockdown (23,5 per cento). Anche l’età si abbassa: avevano un cellulare il 9,2 per cento dei bambini dagli 1 ai 5 anni, ora lo possiede il 14,5 per cento. A questo proposito, sottolineano i ricercatori, non pare nemmeno riscontrarsi l’effetto “stanchezza da digitale“, anzi è forse ipotizzabile una sorta di assuefazione all’utilizzo di tali strumenti, che non vengono più percepiti come un qualcosa di “speciale e occasionale”, ma divengono l’interfaccia con cui si fa
esperienza della vita, dall’apprendimento allo svago.
«Il digitale, con la pandemia – afferma Paolo Ferri – è divenuto un elemento sempre più presente nella vita dei bambini. Le famiglie lo percepiscono come un elemento ‘naturale’ del loro mondo. Non si può tornare indietro o imporre divieti. Si tratta, invece, di formare i genitori, gli insegnanti e i bambini a un uso consapevole, critico e creativo dello smartphone. Va, infatti, evitato che lo smartphone si trasformi in una “baby sitter” o peggio in un “dispenser” di stili di vita standardizzati e di prodotti commerciali! Un compito sfidante e complesso per i genitori e per tutti coloro che si occupano professionalmente di bambini». E’ molto importante, in quest’ottica, che i genitori possano utilizzare le tecnologie insieme ai bambini, non lasciandoli soli con gli strumenti digitali, e provando anche a renderli un’opportunità educativa e un’occasione per parlare con loro di emozioni. Si può chiedere ai bimbi ad esempio cosa hanno provato a parlare in videochiamata con i nonni, se ne hanno sentito più la mancanza o li ha resi felici, come si sentono a vedere i compagni e le maestre in uno schermo durante la didattica a distanza, cosa gli manca, e così via. Resta centrale, sempre, porre dei limiti ed evitare che i più piccoli abusino dei mezzi tecnologici, obiettivo che si ottiene se gli adulti lavorano in primis su loro stessi, poiché si sa che i bambini più delle
parole assorbono l’esempio del genitore, il quale rappresenta un modello che va ad abitare la loro psiche in modo profondo, inconsapevole e duraturo.
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