Solo nel 12% delle procure italiane ci sono magistrati specializzati esclusivamente dedicati alla violenza di genere e domestica, mentre nel 10% delle procure, tutte di piccole dimensioni, non esistono professionisti specializzati nella violenza contro le donne. Violenza che spesso nei casi di separazioni e divorzi non viene riconosciuta: il 95% dei tribunali non è in grado di dire in quante cause di separazioni, divorzi, provvedimenti riguardo ai figli emergono situazioni di maltrattamenti e abusi. E anche quando la violenza è nota e accertata, in meno di un terzo dei casi gli atti del procedimento penale vengono acquisiti dal civile. Inoltre, quasi la totalità dei tribunali (il 95,5%) non riesce a nominare Ctu – consulenti tecnici d’ufficio – con una specializzazione in materia di violenza. Il risultato: “Una sostanziale sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non viene letta correttamente”.
Sono i dati e le riflessioni che emergono dal Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria, presentato dalla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e la violenza di genere, curato dalla magistrata Maria Monteleone e da Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale Istat. L’indagine, realizzata tra dicembre 2019 e il 2020 attraverso un questionario a procure, tribunali, Consiglio superiore della magistratura, Scuola superiore magistratura, Consiglio nazionale forense e Ordini degli psicologi, si riferisce al triennio 2016-2018. L’obiettivo: monitorare l’applicazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, con un focus sul tema centrale della formazione. Alta l’adesione, pari al 95%, per 130 tribunali e 138 procure.
“Dalle nostre indagini emerge con chiarezza che lo strumento principale per combattere la violenza maschile contro le donne è la formazione degli operatori coinvolti. Abbiamo voluto fotografare il quadro del livello di specializzazione di magistrati (procure e tribunali), avvocati e psicologi, che intervengono molto spesso nelle cause civili quando si tratta di valutare aspetti legati alle relazioni intrafamiliari”, ci spiega Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta sul femminicidio. “Quello che abbiamo rilevato è il minore grado di specializzazione e formazione del settore civile rispetto a quello delle procure, la differenza tra piccoli e grandi centri e un grande interrogativo sui quesiti utilizzati per scegliere i Ctu”, continua Valente.
Le consulenze tecniche d’ufficio, che spesso decidono sulle capacità genitoriali, vengono infatti affidate anche a esperti non specializzati nella violenza di genere. Lo studio rivela che solo nel 29% dei tribunali i giudici civili fanno ricorso a un quesito standard nel conferire incarichi ai consulenti tecnici d’ufficio nella materia della violenza di genere e degli abusi sui minorenni, il 10% lo ha elaborato con il contributo di specialisti. “I quesiti non devono essere standardizzati e devono essere introdotti criteri ad hoc per la scelta dei ctu, oggi questo non è previsto – sottolinea la presidente della Commissione – chi tra avvocati e psicologi aderisce a scuole di pensiero non riconosciute non dovrebbe essere scelto”.
Altro punto critico: il collegamento tra civile e penale. “La violenza domestica alla base di separazioni e divorzi spesso non viene riconosciuta, perché i procedimenti civili e quelli penali per maltrattamenti e violenza procedono la maggior parte delle volte in parallelo, senza alcuno scambio di informazioni”, si legge nel rapporto. Soltanto in 41 tribunali su 130 (il 35,5%) vengono sempre acquisiti atti e provvedimenti del procedimento penale che riguarda le stesse parti della causa civile nei casi di violenza domestica. La partecipazione del pubblico ministero nelle cause civili in cui emerge violenza, anche con coinvolgimento di minori, sembra occasionale e non adeguata. L’11% dei tribunali dichiara infatti che il pm non è mai stato informato nei casi in cui sono emerse situazioni di violenza domestica.
In sostanza – rivela l’indagine – soltanto il 25% dei tribunali applica linee guida, protocolli o accordi di collaborazione nella materia della famiglia, della violenza di genere e domestica. Scarso il livello di formazione nell’ambito dell’attività forense e in quella dei consulenti tecnici, psicologi: “Ciascuno ha evidenziato mancanza di attenzione e di sensibilità per il tema della violenza di genere e domestica”. In tre anni, solo lo 0,4% degli avvocati ha partecipato a eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato 6 corsi di aggiornamento.
“Rispetto all’inasprimento della pena, meglio concentrare gli sforzi sulla formazione a 360 gradi – dichiara Valente – non riconoscere la violenza nel settore civile è un problema, non verbalizzarla, chiamarla conflitto non chiamarla violenza è un problema. La violenza non viene letta, è come se ci fosse una delega al penale, ma conflitto e violenza vivono in ambito familiare quindi possono avere una forte valenza. Se riconosciamo la violenza applichiamo la Convenzione di Istanbul (mettere in sicurezza madre e bambini), se non la riconosciamo non la applichiamo. Anche le buone pratiche messe in atto dai buoni centri fanno fatica ad affermarsi, soprattutto nel civile. Il nostro appello è per un impegno da parte della magistratura“.
“In ambito giudiziario serve molta più formazione e quindi specializzazione per riconoscere e affrontare la violenza contro le donne. Molto è stato fatto e alcuni tribunali presentano best practice da diffondere, ma la Convenzione di Istanbul resta in larga parte ancora disattesa”, si legge nel rapporto, che mette in luce una “realtà multiforme e complessa, con uno sforzo compiuto da una parte della magistratura, che deve essere trainante per tutti gli altri”. Per questo “vi è ancora molto da fare perché si possa ritenere che il nostro sistema Paese sia davvero democratico, in quanto garantisce alle donne di essere libere da ogni forma di violenza”.
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