Il nostro lavoro non è solo un ruolo, è una parte di noi

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Non capita spesso che ci chiedano “quali parti di noi portiamo al lavoro“, eppure questa oggi è una domanda molto attuale. Da marzo dello scorso anno abbiamo infatti ridefinito ampiamente quali parti di noi mostrare ed esprimere sul lavoro e adesso, che stiamo auspicando e immaginando una nuova fase, dobbiamo ridefinire tutto ancora una volta: è in questo movimento che si “gioca” il nostro livello di coinvolgimento in quel che facciamo, in quel che “siamo” quando incarniamo un ruolo che non può essere rimasto lo stesso mentre il nostro mondo è cambiato.

Il professor William A. Kahn, tra i fondatori del concetto di engagement delle persone sul lavoro, direbbe: “quanto self metti nel tuo ruolo”? Il ruolo è un perimetro: sono una madre, sono un’amica, sono una professionista. Il self riguarda le nostre dimensioni emotive, fisiche e cognitive: la diversa intensità con cui le coinvolgiamo mentre svolgiamo un’attività. Kahn arriva a parlare di “sé preferito” per indicare i momenti in cui portiamo “il meglio di noi” nei nostri ruoli.

“Nei ruoli che attuano, le persone possono usare diversi livelli dei propri sé (self): fisicamente, cognitivamente ed emotivamente, anche se mantengono integri i confini tra chi sono e i ruoli che occupano. Presumibilmente, più le persone attingono al loro sé per svolgere i loro ruoli all’interno di questi confini, più le loro performance sono coinvolgenti e più sono soddisfatte della vestibilità del ruolo che indossano”.

Abbiamo quindi la possibilità di scegliere, più o meno consciamente, quanto attingere al nostro sé quando lavoriamo: “le persone portano e tolgono in continuazione diverse intensità di sé durante il corso delle giornate lavorative”, dice Kahn, “lo fanno per rispondere ai flussi e riflussi momentanei di tali giornate: per esprimere il proprio sé in certi momenti e per difenderlo in altri”. C’è quindi un cuore, produttivo ma non solo, al centro di quel che diamo sul lavoro: stando alle ricerche di Kahn, attingervi ci rende più energetici e creativi, più autentici e aperti alle relazioni.

Esprimerlo, però, ci rende anche più vulnerabili ed esposti, per questo non lo facciamo sempre: il sociologo canadese Erving Goffman chiama “volontario distacco dall’attuazione del ruolola distanza che le persone possono mettere tra sé e quel che fanno: le persone possono quindi abbracciare un ruolo oppure allontanarsene, “separarsene”, pur continuando ad attuarlo, lasciando di sé appena quel che basta. Kahn definisce “disengagement” proprio il disaccoppiamento del sé dal ruolo professionale: avviene quando “le persone si ritirano fisicamente, emotivamente o cognitivamente durante la propria attività lavorativa”, ed è il male più temuto dalle aziende, ma anche il più diffuso tra le persone: solo il 30% delle persone è infatti coinvolta nel proprio lavoro, secondo i più recenti dati Gallup.

Ma c’è un solo “sé preferito”, una sola fonte a cui attingere energia e coinvolgimento, oppure ce ne sono molti e variano ogni giorno?

Alcune ricerche sociologiche hanno evidenziato come la compresenza di più ruoli permetta alle persone di “giocare su più tavoli” e di scegliere giorno per giorno quale di questi potrà risarcire o controbilanciare la fatica prodotta in un altro: per esempio se ho una brutta giornata al lavoro posso coccolare di più i miei figli quando arrivo a casa, per ricaricarmi di ossitocina, o, se a casa sono in difficoltà, varco la soglia dell’ufficio con sollievo e mi butto con energia nel mio ruolo lavorativo, che mi appare tanto più semplice. Non sono solo strategie cognitive: la teoria sociologica dell’accumulo dei ruoli riguarda un orientamento che abbiamo in modo naturale ad avvantaggiarci della nostra complessità identitaria come strumento di ricarica personale.

Se uniamo questa prospettiva a quella delineata da Kahn, la scelta di portare più sé nel ruolo può farsi più audace e consapevole: l’apertura delle barriere tra quanto mi lascio coinvolgere in un contesto e quanto in un altro appare meno rischiosa. Mi gioco infatti di più: mi mostro di più e partecipo di più, ma al tempo stesso seguo il naturale andamento delle mie risorse e capacità che, se tenute in movimento, si alimentano a vicenda.

Perché non mettiamo sempre tutti noi stessi in quel che facciamo? Ci risparmiamo, o così crediamo. Oppure ci facciamo limitare dalle etichette, dalle definizioni. Nel primo caso, stiamo in realtà trattenendo delle energie che in questo modo, purtroppo, scompaiono: stiamo impedendo “l’arricchimento dei nostri ruoli”. Nel secondo, aspettarsi che sia l’etichetta di un terzo a continuare a definirci oggi è incompatibile con la velocità e la complessità del progresso attuale, anche sul lavoro. Per usare ancora la terminologia di Kahn, possiamo impiegarci completamente in quel che facciamo ed esprimere tutti noi stessi in ogni situazione; e oggi, nel disegnare il lavoro del futuro, questa appare come una  responsabilità ancora prima che come una possibilità.

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  • Sarah |

    Io ho amato molto il mio lavoro, troppo. Ho avuto bisogno di prendere le distanze e riscoprire parti di me che avevo trascurato. È un vero e proprio viaggio alla scoperta di nuovi equilibri possibili. Ho scoperto leggendo che era un problema di molti. Questo mi ha fatta sentire meno sola.

  • Elisabetta |

    Sono pienamente in accordo,facendo formazione alle educatrici ho sempre sostenuto che è determinante sapere dove si è a 360 gradi

  • Eleonora |

    Ho creduto per anni il contrario, fino a quando ho capito che, il vero motivo, è che non facevo un lavoro adatto a me da cui appunto prendevo le distanze

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