Guardo la foto di fine anno scolastico di mio nipote, prima elementare. I bambini sono disposti su tre file con la maestra che svetta alla loro destra, come in una piccola squadra di calcio. Ma non è la solita foto di classe da annuario scolastico, perché i loro visi sono coperti dalla mascherina. Mio nipote non sa cosa significhi andare a scuola a volto scoperto e senza distanziamento: per lui la scuola è iniziata con la pandemia.
Quale eredità di consapevolezze e auspici ci consegna quest’ultimo anno scolastico? Più volte in questi mesi mi sono ritrovata a parlare con mamme e papà, amici e colleghi, sottolineando la pazienza, la diligenza e il senso di responsabilità con cui i bambini hanno affrontato questo periodo.
Questa generazione ha dovuto confrontarsi all’alba della crescita con la durezza e l’imprevedibilità della sottrazione e della perdita: da un giorno all’altro sono stati privati della possibilità di stare con gli amici, di prestare penne e matite al compagno di banco, di fare una gita, di muoversi liberamente, di abbracciarsi quando viene la voglia e di esprimersi con il viso. Per molto tempo hanno fruito in maniera limitata della dimensione fondamentale della scuola, che va ben oltre quella dell’apprendimento: la scuola è incontro con adulti diversi dai propri genitori, scoperta del gruppo, palestra per l’autonomia, alternativa alle dinamiche familiari e domestiche, palcoscenico di identità in costruzione, incubatore di sogni e prospettive, acceleratore di desideri e talenti. Con difficoltà la scuola ha tenuto vivi quei riti e quelle liturgie che, varcato il cancello e la porta della classe, rendono possibile sentirsi studenti e non più solo figli. Alcuni bambini, poi, per la prima volta si sono confrontati con la distanza da un genitore, magari perché in quarantena, o con la perdita di una persona cara, senza neppure conoscere il potere consolatorio di un’ultima carezza o di un saluto. A fronte di queste sottrazioni, la presenza ingombrante della pandemia era ovunque, fuori e dentro la scuola, così come nelle loro menti.
Ma “i bambini sono pronti per le cose grandi – scrive Giampaolo Nicolais nel libro “Il bambino capovolto”– chiunque abbia ascoltato le domande di un bambino che di fronte alla scomparsa di un nonno chiede con insistenza se starà bene di là e se lo si potrebbe andare a trovare, sa di cosa parlo […]”. Ce ne hanno dato continua dimostrazione in questo periodo. Davanti al lungo catalogo di privazioni e perdite cui abbiamo accennato, i più si sono adeguati con una pazienza e una disciplina che stringeva il cuore. Filippo è stato per mesi da solo in DAD. Andrea teneva vicini i sogni (“Quando finisce potrò festeggiare il compleanno?”) ma rispettava tutte le regole e ricordava anche al nonno, più incline di lui alla ribellione, la necessità di tenere la mascherina. Elisa ha raccolto parole da portare sulla tomba di chi non c’è più. Rebecca e Giacomo hanno scambiato parole e disegni attraverso una porta a vetri con la mamma, chiusa in una stanza per una quarantena che sembrava non finire mai. Tutti con spirito curioso e inquisitorio sulla realtà, a chiedersi il perché delle cose, a guardare la quotidianità da punti di vista sconosciuti ai grandi e ad inventare soluzioni. La loro risposta sembra una conferma di quanto emerso in uno studio pubblicato lo scorso aprile sulla prestigiosa rivista Nature, che mostra come l’essere umano abbia una innata tendenza ad “aggiungere” qualcosa per risolvere problemi di diversa natura.
Guardando ai prossimi mesi, e non smettendo di credere che questo difficile periodo storico racchiuda importanti occasioni per una rivoluzione degli sguardi e dei comportamenti, ho l’impressione che alcune esperienze, nate nella lunga emergenza che stiamo vivendo, racchiudano germogli che contrastano quell’”autismo corale” di cui parla il poeta Franco Arminio, secondo il quale stiamo tutti insieme ma ognuno per conto proprio.
Ho visto insegnanti della scuola primaria fare i salti mortali e fare appello a tutta la creatività possibile non solo per restituire briciole e brividi di quella scuola ai bambini fermi in casa sulla loro sedia o seduti in classe nel loro banco solitario, ma anche per cogliere necessità e bisogni, studiare modalità alternative, portare nella didattica un surplus di emozioni. Dall’altro lato dello schermo, ho visto genitori in circonvoluzioni di abnegazione, tra spazi da dividere e impegno nel mantenere un’attenzione duale, un occhio al figlio e uno al pc per il lavoro. Se la scuola è entrata nelle case dei bambini, potendo avere una migliore comprensione di alcune situazioni familiari, i genitori sono entrati a scuola: in molti hanno riferito di essersi resi conto, per la prima volta, del lavoro degli insegnanti.
Auspico che i genitori, a partire da questi anni scolastici dei quali hanno potuto vivere anche il peso e la fatica, possano continuare a scoprire e (ri)scoprire l’importanza di un dialogo con gli insegnanti, non solo nel favorire processi di apprendimento, ma anche nella funzione educativa e ancor più in quella riflessiva di cui parla Peter Fonagy, indispensabile premessa del benessere psicologico in tempi di perdita e di sofferenza. Le avversità sono occasioni di crescita per un bambino se le figure adulte che lo accompagnano, anziché considerarlo fragile, vulnerabile, da proteggere a oltranza, lo guidano alla scoperta di significati, gli regalano scorci di sincerità autorevole, comprensibile e alla sua portata, lo sostengono dandogli fiducia, ne premiano il coraggio e l’inventiva. La funzione riflessiva altro non è se non la capacità di un adulto di sintonizzarsi con lo stato emotivo di un bambino, di riflettere sulla sua esperienza interna e rispondere adeguatamente, offrendo strumenti per accoglierla e comprenderla. A questo servono genitori e insegnanti, ad aiutare i bambini a guardare la realtà senza restare pietrificati: come Perseo, che guarda il volto di Medusa attraverso lo scudo e in questo modo si salva dall’essere pietrificato dal suo sguardo.
Davanti alle sfide poste da questa pandemia, come spiegare l’imprevisto che irrompe nelle nostre vite e che ne fa tremare le fondamenta, la malattia e la morte, rivelando che siamo piccoli quanto formiche sul grande dorso della terra, è arduo pensare che un adulto – anche lui sofferente e affaticato – possa svolgere da solo questa funzione. Mai come oggi i bambini hanno bisogno di un coro di voci e gli adulti hanno bisogno di appoggiarsi ad altri, in percorsi di responsabilità condivisa.
Non si può perdere allora questa occasione di apprendimento: non si possono ripagare questi sforzi dei bambini con muri di silenzio, non si può giocare al risparmio aggirando le domande importanti o consegnando loro mezze verità, escludendoli dalla comprensione o peggio ancora, offrendo loro esempi di ostilità tra adulti. I bambini hanno bisogno di genitori e insegnanti capaci di schiettezza e amore della verità. E di camminare a braccetto, ritrovando il senso dell’alleanza, come in una grande famiglia. Nel film “Una storia vera” di David Lynch il protagonista ad un certo punto dice: “Quando i miei figli erano piccoli, facevo un gioco con loro. Gli davo un rametto ciascuno e dicevo loro di spezzarlo. Non era certo un’impresa difficile. Poi dicevo loro di legare insieme i rametti, e gli dicevo di provare con il mazzetto. Ovviamente non ci riuscivano. Quel mazzetto – gli dicevo – quello è la famiglia”.
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