In questi giorni è più facile sentir parlare di vacanze e di coprifuoco che di mascherine: alle mascherine sembriamo essere tutti un po’ rassegnati, anche se sappiamo che all’aperto in questa stagione non servono a molto. Sembra essere più complesso spiegarci quando metterle e quando toglierle che dirci, più semplicemente, di tenerle sempre su. Non si parla però delle controindicazioni che questo dispositivo di sicurezza, necessario negli ambienti chiusi e salvifico in questi mesi in tutti i contesti di assembramento, ha sulla psiche umana. Se ne parlassimo un po’ di più, staremmo forse valutando con maggior favore la possibilità di rendere le istruzioni di utilizzo più articolate, consentendoci però di togliere la mascherina negli spazi aperti.
Da mesi ormai non vediamo più le persone in faccia, se non attraverso un monitor o in ambito “congiunti”. Camminiamo per strada, saliamo sui mezzi, entriamo nei negozi e nei palazzi, andiamo in ufficio… e vediamo persone mascherate: ne vediamo solo gli occhi, più della metà del viso è coperta. Non riconosciamo quindi le loro espressioni, e questo ha un effetto particolare su di noi, che viene dalla natura fortemente sociale della nostra specie: se non possiamo vedere i volti delle persone, nel nostro cervello scatta infatti un piccolo segnale di allarme. Succede perché, anche (e forse soprattutto) quando siamo con degli sconosciuti, quindi per strada e in luoghi di passaggio, è l’espressione che intravediamo in loro a farci sentire al sicuro, a dirci se va tutto bene.
“Per sopravvivere e stare bene, dobbiamo poter distinguere l’amico dal nemico, riconoscere immediatamente se una situazione è sicura o pericolosa. In mancanza di segnali rassicuranti, ci sentiremo minacciati”.
Afferma lo psichiatra Bessel van der Kolk, nell’articolo “Perché le mascherine possono provocare emozioni spiacevoli” pubblicato su Psychology Today.
Ancora oggi, intravedere con la coda dell’occhio o incrociare direttamente per strada decine di persone di cui non riusciamo a cogliere l’espressione ci tiene quindi in un costante stato di leggero allarme: non bastano infatti 12 mesi di nuove abitudini per modificare un istinto che ci ha salvato la vita per centinaia di migliaia di anni. La nostra capacità di riconoscere il pericolo solo osservando una faccia è infatti una delle competenze più complesse nel mondo animale, e nella nostra specie è evidenziata da tre caratteristiche distinte:
1) sin dalla nascita, gli esseri umani hanno una preferenza naturale verso i volti, che i neonati tendono a guardare più a lungo e più volentieri del resto;
2) la capacità umana di riconoscimento facciale è molto specifica e si distingue chiaramente nel nostro cervello da altri tipi di memoria e di riconoscimento di oggetti;
3) la processazione dei volti è situata addirittura in un’area dedicata del tessuto neurale.
Non si tratta quindi solo della difficoltà nel capirsi bene, della mancanza di contatto, dell’impossibilità di innamorarsi… qui siamo nella parte bassa della piramide dei bisogni di Maslow, nell’area del “sentirsi al sicuro”. E il costante ripetersi di questi sottili, non espliciti segnali di pericolo quotidiani può causare un tipo di stress che viene definito “cronico” e che si alimenta proprio del fatto di non avere cause evidenti.
La possibilità di riconoscimento facciale è così essenziale alle nostre interazioni sociali, che le persone che hanno delle disabilità in quest’area – pensiamo ad esempio alla prosopagnosia, anche detta “cecità facciale”: un disordine cognitivo che rende impossibile riconoscere i volti – sviluppano più facilmente difficoltà di carattere sociale, fino ad arrivare alla sindrome della SAD (Social Anxiety Disorder) o sociofobia, che già prima del Covid interessava dal 7 al 12% degli abitanti del mondo occidentale.
A ciò si aggiunge che, come hanno dimostrato gli scienziati Matsumoto, Keltner, Shiota, O’Sullivan e Frank in una ricerca del 2008, le espressioni facciali sono direttamente collegate all’esperienza emotiva e sono fondamentali per la capacità di un individuo di adattarsi al proprio ambiente perché forniscono segnali su come relazionarsi con gli altri.
Il sorriso a cui abbiamo dovuto rinunciare durante il Covid, insomma, non è solo un elemento di circostanza ma un vero e proprio abilitatore sociale, che alimenta il nostro senso di sicurezza e di appartenenza a una comunità sicura, amicale.
Tenere addosso le mascherine all’aperto, quindi, al di là di tutti i dibattiti sul senso di sicurezza, la consapevolezza della situazione, la complessità del mettere e togliere, ha un costo psicologico per una specie come la nostra che andrebbe messo nel cantiere delle riflessioni in corso. Altri Paesi ne hanno parlato in modo più aperto dell’Italia, fino a stilare veri e propri cataloghi del “come fare” quando l’ansia da mascherina diventa insopportabile, e il punto di partenza è sempre quello di “non giudicare” gli altri (e non giudicarsi) perché non è affatto ovvio, per noi esseri umani, girare mascherati.
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