Non è stato smart working, quello fatto nell’ultimo anno. E’ stato piuttosto emergency working: è stato remote working e ha fatto intenso uso di tecnologia e di lavoro da casa, come forse immaginavamo potesse essere un modo di lavorare più “intelligente” prima che ci saltassero tutti i paradigmi e che salire su un’auto per “andare a” essere produttivi smettesse di sembrarci ovvio. Ma no, non è stato smart working, e quindi non è da lì che dobbiamo ripartire per immaginare nuovi modi di lavorare adesso che intravediamo dall’altra parte una riva a cui approdare e ci domandiamo quali case costruirvi.
Il flusso di produzione non è stato interrotto. Avrebbe potuto esserlo: c’è stata ed è ancora in corso una pandemia. Sono state messe in discussione le basi del nostro sentirci al sicuro e del nostro stare insieme: le basi della nostra identità individuale e collettiva. Sono morte 124.000 persone in Italia e oltre 3,3 milioni nel mondo, e purtroppo non è finita. Avremmo potuto interrompere la produzione ma non lo abbiamo fatto, anzi. Nella dimensione dell’appartenenza a un’azienda, a una professione, abbiamo trovato rifugio.
Una recente ricerca Gallup lo chiama “il paradosso della relazione tra benessere e coinvolgimento”: il benessere delle persone è diminuito, ma il loro coinvolgimento verso il proprio lavoro non ne ha risentito, contrariamente a quanto accadeva prima del covid. La scienza delle transizioni lo spiega molto bene: nelle trasformazioni identitarie si ricostruiscono le mappe e si cerca conferma della solidità di alcuni punti di riferimento: quelli che restano saldi – pur trasformandosi – nella tempesta. Il lavoro che facciamo è uno di questi. Per questo il lavoro non è solo sicurezza economica, ma anche cittadinanza e identità. Per questo il lavoro è un diritto: il diritto di esprimere chi siamo, di contribuire alla costruzione di qualcosa di più grande di noi.
La parola lavoro viene dal latino labor, che vuol dire fatica; e ancora prima “dal sanscrita labh che, in senso letterale, significa afferrare, mentre, in senso figurato, vuol dire orientare la volontà, il desiderio, l’intento, oppure intraprendere, ottenere”. Il lavoro è dunque fatica per definizione, ma è anche espressione di una volontà e possibilità di intraprendere, di realizzare, di afferrare. Afferrare… cosa?
Le transizioni sono un’occasione unica per tornare alla radice delle parole e delle definizioni: per farci delle domande che altri si sono fatti nella storia prima di noi, ma che a noi forse non erano mai state fatte. Perché l’unico vero grande ostacolo al cambiamento è ciò che esiste già e la cui esistenza ostruisce letteralmente l’immaginazione del nuovo: ciò che esiste già – il nostro modo di lavorare pre-pandemia – rappresenta la risposta a domande fatte prima che ci fossimo noi. Ma oggi ci siamo noi. Siamo persone nuove – lo eravamo già prima, con le nostre molteplici dimensioni di vita, con i numerosi cambiamenti che costellano le nostre storie, con una possibilità di accesso a informazioni e interessi che non ha avuto eguali nella storia dell’umanità – e lo siamo ancora di più adesso, che abbiamo visto come tutto può interrompersi all’improvviso, come tutto può cambiare. Non c’è molto del vecchio modo di lavorare che siamo costretti a conservare. Abbiamo tutta la tecnologia che serve per cambiare tutte le abitudini e fare spazio a nuove mappe, più ampie e in grado di contenerci.
Ma potrebbe non avvenire. Il lavoro potrebbe continuare a non diventare mai smart, perché al lavoro, per essere smart, la tecnologia non basta.
“Non è tecnologia: è un modo di vedere”
dice il neuroscienziato Beau Lotto nel libro “Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo”. La capacità di immaginazione umana non ha eguali nell’universo tecnologico, anche se vi abbiamo investito molto poco nell’ultimo secolo. Ecco, cambiare il modo in cui lavoriamo dovrebbe usare meglio la nostra immaginazione, invece di muoversi dentro ai vincoli della tecnologia. Lo abbiamo visto chiaramente in 15 mesi di video conferenze: lo schermo di un computer ci abilita ma non ci contiene, c’è molto di più “dietro”. Possiamo ripartire da lì: dalle cose che abbiamo capito di noi, proprio quelle che la vecchia cornice non sapeva inquadrare. Possiamo evitare che le nuove cornici ripetano quei limiti: possiamo immaginarle più ampie, possiamo ri-disegnarle daccapo, con al centro noi, la nostra volontà di essere e di fare. La tecnologia seguirà, si adatterà, ci abiliterà: non l’abbiamo forse inventata per questo?
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