Perché la RU-486 “Non è un veleno”: i rischi della disinformazione

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Sulla RU-486 Chiara Ercolani ha molto da dire. Lei è romana, ma Alley la incontra a Palermo. Si definisce una comunicatrice e fa parte del team di Maghweb, associazione che raccoglie giornalisti e giornaliste e si occupa di informazione per la cooperazione internazionale e le attività sociali, dal 2012.

Negli ultimi mesi il collettivo è in prima linea nella battaglia per i diritti delle donne. Al centro, una delle conquiste più dibattute, quella che rimane sotto attacco, senza tempo e senza esclusione di colpi, l’interruzione di gravidanza. Parliamo con Chiara Ercolani della possibilità di abortire attraverso l’assunzione della RU-486. Le nuove linee guida del Ministero, diffuse lo scorso agosto – che ne permettono l’utilizzo fino a 63 giorni (9 settimane compiute di età gestazionale) ed estendono la pratica alle strutture ambulatoriali pubbliche nonché a consultori e day hospital – hanno scatenato reazioni incontrollate nel mondo dell’ultradestra cattolica.

Pro Vita e Famiglia ha tappezzato le città di manifesti con uno slogan dai contenuti fortemente provocatori: «Prenderesti mai del veleno? Stop alla pillola abortiva RU-486, mette a rischio la salute e la vita della donna e uccide il figlio nel grembo».
Contro questa campagna nasce l’idea di Maghweb che ha deciso di intervenire, a gamba tesa, con un manifesto dal titolo inequivocabile: Non è un veleno, perché «L’allusione “Prenderesti mai del veleno?” è violenta e pericolosa, è un’opinione che si fa pubblicità. È una frase che veicola informazioni false, esagerate e tendenziose».

Cosa sia quel progetto, Chiara Ercolani comincia a spiegarcelo dal principio.
Questo lavoro è una reazione. Nasce così, contro una campagna di comunicazione molto violenta, qual è quella lanciata da Pro Vita e Famiglia. Lo scopo è parlare innanzitutto alle donne che si trovano davanti a quel manifesto, dar loro delle risposte.

Che genere di risposte?
Informazione, per prima cosa, contro la disinformazione.

Come agite?
Lo facciamo in molti modi. Attraverso le interviste, abbiamo sentito medici. Abbiamo raccolto le opinioni e le testimonianze di ginecologi come il dottor Melluso, oggi in pensione ma tra i primi a praticare l’aborto quando intorno a lui c’erano solo obiettori. Ne abbiamo fatto dei podcast, a disposizione di tutte sui nostri canali social.

Com’è l’informazione su questi temi?
Ancora oggi molto difficile. Ci sono donne che ci chiamano per chiederci aiuto, non sanno come fare per abortire. E sono richieste che lasciano spiazzati, non siamo uno sportello di quel genere, per noi è un’esperienza del tutto nuova.

Non è un veleno non è solo informazione ma è anche comunicazione che poi è il terreno sul quale lavorate di solito.
Sì, il progetto si completa con un’azione comunicativa e un’altra legale. Abbiamo creato un contromanifesto che comincia ad essere adottato in molte città, a Bologna ma anche a Ravenna per esempio. E poi c’è la denuncia per procurato allarme e per diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico.

Sul sito web della controcampagna quel modello è stato condiviso con l’invito esteso davvero a tutti e tutte: «Ogni cittadinə, ente, associazione può depositare presso la procura della propria città», si legge.

Che tipo di risposta avete avuto? Com’è distribuita geograficamente l’adesione?
Il riscontro c’è stato, gruppi femministi, società civile e finalmente addirittura le scuole che ci hanno chiesto di collaborare. Siamo in Emilia Romagna, ma saremo presto a Palermo e a Roma con i nostri contromanifesti. Tante testimonianze di donne che si raccontano sono arrivate spontaneamente. Abbiamo creato uno spazio, si chiama Ho abortito e ve lo dico.

C’è come la voglia di fare chiarezza attorno a un tema che è sempre stato fortemente connotato da giudizi morali, è corretto?
Esatto. Lo scopo è cambiare la narrazione, liberare l’aborto dalla vergogna.
Può accadere che la donna che decida di abortire provi senso di colpa, purché sia “il suo” senso di colpa. È un lavoro difficile, su un retaggio culturale molto forte.

Che l’azione condotta da Pro Vita e Famiglia sia una spregiudicata e infondata rappresentazione dei fatti è facilmente verificabile. Basterà guardare alla comunicazione istituzionale per farsi un’idea precisa. Per dirla con il Ministero la vituperata pillola abortiva non è un veleno, ma una «procedura medica che si basa sull’assunzione di almeno due principi attivi diversi, il mifepristone (meglio conosciuto col nome di RU486) e una prostaglandina, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro». La posizione ufficiale dovrebbe da sola bastare ad escludere margini di confusione e zone d’ombra. Ma così non è.

L’attacco al diritto all’interruzione di gravidanza, del resto, non riguarda solo l’Italia: basti pensare al recente caso della Polonia dove quella libertà di autodeterminarsi è stata per le donne gravemente compromessa da una riforma, resa intoccabile da un recente pronunciamento della Corte Costituzionale.

Chiara Ercolani spiega che non ci sono sposnor politici dietro all’iniziativa e alla campagna, “c’è però la voglia – dice – di provare a fare una proposta legislativa. Sull’obiezione di coscienza, ad esempio”. Il tasto è di quelli dolenti. Se infatti un diritto, riconosciuto sin dal 1978, continua a rimanere di difficilissimo esercizio ciò accade anche per via della nutrita schiera di medici i quali – seppur dentro a ospedali pubblici e laici – praticano l’obiezione in maniera massiva.

C’è però qualcosa, più e più in fondo. Si tratta di uno stigma che pare davvero indistruttibile, che colpevolizza le donne e finisce per toccare di riflesso perfino i sanitari che si battono affinché quel diritto sia loro garantito ed esercitato in piena sicurezza. E proprio la piena sicurezza è la parola chiave attorno alla quale tutti dovremmo cominciare a ragionare.

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Sul sito web è ancora possibile aderire e sottoscrivere la campagna Non è un veleno.

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