Lavoro, ecco cosa impariamo dai 7 impegni presi dal ceo di Ibm

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Abbiamo scoperto alcune cose importanti su come lavoriamo, nel corso dell’ultimo anno. Mentre le scoprivamo, abbiamo dovuto gestire queste scoperte, correre ai ripari, darci da fare. Così però le scoperte rischiano di restare nascoste dietro alle loro conseguenze, e invece, come in tutte le transizioni importanti, andrebbero evidenziate e celebrate per quel che sono: dei “nuovi inizi”.

Inizi che aspettavano da anni di venir fuori, i cui semi erano già lì. Erano sepolti proprio sotto alle nostre abitudini, sotto al normale modo di fare le cose che prevale su ogni cambiamento perché è più efficiente e rapido, meno faticoso. I nuovi inizi, prima di diventare tali, hanno di solito l’aspetto di anomalie. Si presentano come problemi, come elementi che il sistema non prevede e quindi respinge, perché ne mettono in discussione il funzionamento. Individualmente li conoscevamo già, ma come società e organizzazioni li tenevamo oltre il perimetro di ciò che eravamo pronti a far entrare.

La pandemia ha messo in luce alcuni aspetti e ha fatto fiorire dei semi di cui oggi paghiamo appieno la fatica – fisica, emotiva e psicologica – ma che possiamo forse vedere anche come qualcosa di cui essere grati, perché serviva un evento così imprevisto, immenso e violento, per costringerci a cambiare.

E’ infatti dal senso di fatica e dalle nuove abitudini, con tutti i loro imprevisti, che sono nate iniziative come quella del ceo di IBM, Arvind Krishna – e cito lui per tutti, ma questa sensibilità appare oggi molto diffusa ai vertici delle grandi aziende – che ha pubblicato su Linkedin il suo “pledge”, una parola che unisce i termini promessa e impegno. Sette principi dedicati soprattutto a rispondere al meglio alle sfide del nuovo modo di lavorare imposto dal Covid19; ma osserviamoli e domandiamoci: non è questo il modo in cui vorremmo e avremmo voluto essere e lavorare sempre? Non è questo il modo in cui vorremo lavorare anche quando “tutto questo sarà finito”? Non va forse in questa direzione il nuovo inizio che vorremmo?

I pledge del ceo di Ibm

1) Mi impegno ad essere attento alla dimensione famigliare delle altre persone: voglio che tutti quelli che sono in video-call con me sappiano che è ok al 100% se devono interrompere per gestire un problema familiare.

Quando torneremo ai nostri uffici, alle nostre riunioni in presenza, continuerà a valere questa regola? Ci saremo resi conto che la vita è presente sempre, anche se massimamente organizzata, e che l’attenzione di un genitore, un parente, un caregiver, è una dimensione che non scompare con la distanza? Potremo comunque essere “perdonati” per gli imprevisti?

2) Mi impegno a supportare la flessibilità verso bisogni personali: a riconoscere che tutti siamo in equilibrio tra vita e lavoro, che possiamo aver bisogno di bloccare del tempo nell’agenda per prenderci cura dei nostri cari, e che dobbiamo riconoscere e rispettare alcuni confini quando fissiamo le riunioni.

Qui milioni di donne potrebbero avere un mancamento. Vuol forse dire che non daremo più per scontato che le persone lavorino fino alle otto di sera? Che capi che hanno rinunciato ad avere una vita per coltivare la missione dell’“always on” non potranno più imporre la stessa scelta a persone di talento che però una vita vorrebbero averla? Che possiamo lavorare meglio in meno tempo, semplicemente organizzandoci e rispettando delle regole comuni? Che la flessibilità consentita da anni dalla tecnologia è finalmente possibile anche a livello culturale?

3) Mi impegno a supportare dei momenti “a videocamera spenta”: non è necessario essere sempre “on”, nemmeno in termini di apparizione sugli schermi delle riunioni.

L’affaticamento che deriva da questa condizione è noto da tempo, e non è sempre possibile avere il video acceso: spazio alla responsabilità e alla capacità decisionale del singolo, nel rispetto degli altri.

4) Mi impegno a essere gentile. A essere un buon ospite quando mi presento nelle case degli altri (attraverso il video). A essere consapevole che sto entrando dentro delle vite, e a farlo con empatia.

Questo punto è cruciale: l’ingresso della dimensione lavorativa in quella più ampia della vita delle persone è sempre un ingresso “massiccio”.  Andrebbe e andrà sempre meglio se verrà fatto con gentilezza e rispetto per ciò che c’è: anche quando non entrerà più fisicamente nelle nostre case, perché il lavoro sarà comunque sempre un elemento importante e ingombrante delle nostre vite, di cui comporrà il mosaico insieme ad altre parti.

5) Mi impegno a fissare dei confini e prevenire la “video fatigue”: riducendo la durata dei meeting, evitando “riunioni maratona” di mezza giornata.

Diciamocelo: le riunioni ci stavano e ci stanno ancora asciugando l’anima. C’è qualcosa che non va, non andava neanche prima. Troppe, troppo lunghe, troppo spesso non abbastanza utili. Se la percezione netta dell’affaticamento da video ci sta facendo osservare questo problema da una nuova prospettiva, non perdiamo questa occasione per ripensare a come e perché facciamo le riunioni, e a come possiamo ripensarle radicalmente sfruttando questa fase di trasformazione.

6) Mi impegno a fare frequenti “check in” con le persone: a creare spazio per avere delle connessioni e chiedere alle persone come stanno.

Lo abbiamo forse dato troppo per scontato e non succedeva più da tempo, da molto prima che arrivasse il Covid? Ne abbiamo visto l’assenza adesso che non capita più nemmeno in ascensore, ma alzare gli occhi per incontrare quelli degli altri non è solo un tema da pandemia, e non è affatto detto che tornare in ufficio ce lo renderà possibile, se non vorremo intenzionalmente farlo. Adesso che sappiamo quanto ci mancano gli altri, sapremo trovare il tempo e il modo di cercarli “dopo”?

7) Mi impegno a prendermi cura di me: mi prenderò cura della mia salute fisica e mentale, dormirò quanto mi serve, fisserò del tempo in calendario per pranzare e cenare lontano dallo spazio di lavoro, cercherò di uscire almeno un po’ ogni giorno e di cambiare alcune routine.

Se estrapoliamo questa promessa dal contesto, possiamo guardarla come l’innovativo impegno di un CEO: una di quelle persone che con il loro esempio ci hanno dimostrato che tutto quanto elencato sopra gli è alieno perché sono i primi a “lavorare “sempre”, disinteressandosi persino della propria salute.

Sappiamo quanto sia importante l’esempio, e vedere un CEO che in pausa pranzo fa una passeggiata, che va a casa dai figli alle sei di sera, che prende mezza giornata di ferie per andare dal parrucchiere o al mare… quanto bene farebbe al nostro modo di vivere il lavoro?

Riconoscere che tutti abbiamo vite ricche e complicate, che i confini tra le cose che siamo sono sempre più sottili, a potenziale beneficio di ogni aspetto della nostra vita, che potrebbe arricchirsi e trarre energie dagli altri; dare a queste dimensioni l’opportunità di convivere con flessibilità e cura, anche solo grazie a un maggior grado di consapevolezza e a qualche gesto gentile in più; renderci conto che c’è molto altro dentro e intorno a ognuno di noi, e non solo perché traspare ai margini dei nostri schermi, ma perché è da questa complessità che nasce la forza di chi siamo e di ciò che possiamo fare: era così anche “prima” del Covid, ma era più difficile da vedere, nascosto da stereotipi che sembrava impossibile abbattere. Adesso lo abbiamo visto, adesso lo sappiamo: ma servirà uno sforzo consapevole, coordinato e collettivo per farne davvero un nuovo inizio, che fiorisca e ci aiuti a fiorire nel dopo pandemia.