Oggi in Consiglio dei ministri approderà la proposta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sulla struttura di governance del Recovery Plan da 209 miliardi su cui l’Italia si gioca il futuro. Una struttura prevista dalla Commissione europea, che chiede riferimenti certi per assicurare una corretta pianificazione, attuazione e monitoraggio dei circa 60 progetti in cui alla fine il piano italiano dovrebbe articolarsi. Una struttura cruciale per la gestione del programma, dalla cui efficacia dipenderà la capacità di marciare nei modi e nei tempi concordati con Bruxelles.
Lo diciamo subito: al di là delle polemiche e della fisionomia definitiva che supererà il vaglio delle forze politiche, la task force non potrà essere monogenere, perché la posta in gioco stavolta è troppo alta. Si tratta dell’avvenire del Paese, delle possibilità di ripresa dopo la batosta del Covid-19, delle opportunità per i nostri figli e le nostre figlie, del destino di quella Next Generation Eu che dà il nome al pacchetto europeo per la rinascita dopo il trauma della pandemia. Le donne sono metà della popolazione, non una minoranza da tutelare: il loro sguardo serve, accanto a quello degli uomini, proprio per disegnare una ripresa nel segno dell’inclusione e della sostenibilità, obiettivi dichiarati di Bruxelles e anche del nostro Governo. Ce lo confermano tutti gli indicatori: senza uguaglianza di genere, soprattutto in Italia ma non solo, non c’è crescita.
La questione di una rappresentanza equa è fondamentale per la Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. “Per una buona leadership – si legge nelle comunicazioni su “Un’Unione dell’uguaglianza: la strategia per la parità di genere 2020-2025” – è fondamentale la presenza sia delle donne che degli uomini. Per rispondere alle sfide complesse che i responsabili politici si trovano oggi ad affrontare è necessaria una leadership inclusiva ed eterogenea. Una maggior inclusione e una maggior eterogeneità sono essenziali per portare avanti idee nuove e strategie innovative in grado di rispondere meglio a una società europea dinamica e fiorente”. Vale sempre, ma vale di più adesso perché “le sfide principali che l’Ue si trova oggi ad affrontare – tra cui le transizioni verde e digitale e il cambiamento demografico – hanno tutte una dimensione di genere”. L’inclusione di una prospettiva di genere in tutte le politiche e i processi dell’Ue è per questo definita “essenziale”.
Secondo il disegno originario immaginato dal premier Giuseppe Conte, la governance del piano italiano dovrebbe essere piramidale. In questa versione, la selezione dei 60 progetti (dai 600 inizialmente presentati dai ministeri), che è una scelta politica, dovrebbe essere affidata al Comitato interministeriale degli affari europei (Ciae) per l’occasione composto da tutti i ministri, ovvero 8 donne e 14 uomini. Il piano di attuazione e la vigilanza politica dovrebbero invece essere assegnati a un comitato esecutivo formato dallo stesso Conte e da due ministri “di spesa”: il dem Roberto Gualtieri (Economia) e il pentastellato Stefano Patuanelli (Sviluppo economico). Tre uomini.
Toccherà a loro, salvo revisioni dell’impianto (le critiche sono fortissime, a partire dai renziani di Italia Viva che hanno minacciato di non votare la task force né in Consiglio dei ministri né in Parlamento), decidere insieme le nomine dei componenti della struttura di missione dedicata al monitoraggio del rispetto del cronoprogramma, che potrà anche esercitare poteri sostitutivi in caso di inadempimenti: 6 supermanager per ciascuna delle missioni del piano (digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, salute, infrastrutture, istruzione e ricerca, inclusione sociale e territoriale), ognuno dei quali dovrebbe essere coadiuvato da 15 tecnici (ma anche questo numero potrebbe cambiare). In tutto 96 persone, forse con un coordinatore dell’unità di missione su cui però la discussione politica è ancora aperta.
Da Palazzo Chigi hanno elencato le professionalità che occorreranno: ingegneri, architetti, informatici, statistici, economisti, giuristi e così via. Considerato il gap di genere nelle discipline Stem e la disparità ancora forte nella presenza di donne manager, il rischio è lampante: ritrovarsi con una maxi task force ancora una volta tutta (o quasi) al maschile. I precedenti recenti sono ingombranti: nella prima ondata della pandemia da Covid-19 sono stati nominati un Comitato tecnico-scientifico completamente monogenere (20 uomini su 20) e una commissione Colao composta di quattro donne su 17. Con il premier costretto dalla mobilitazione della società civile, a partire dal comitato Dateci Voce, a intervenire a metà maggio per riequilibrare la composizione delle due più importanti task force della prima ondata pandemica. Una composizione oggettivamente e intollerabilmente squilibrata.
L’errore non va ripetuto. In una lettera al premier il network Noi Rete Donne ha chiesto di garantire il principio di uguaglianza e rappresentanza paritaria tra uomini e donne nella cabina di regia per il Recovery Fund: 50 e 50. Anche Dateci Voce è tornata subito a farsi sentire, prima chiedendo di affiancare a Conte due vicepremier “nel segno della parità di genere, che abbiano ampia delega per gestire il piano vaccini e il Recovery Fund”, e poi, in una nota congiunta con Le Contemporanee, Donne per la Salvezza e Base Italia, mettendo in chiaro che “qualunque sia la scelta organizzativa del Governo nulla può essere fatto senza le competenze femminili. Fare senza le donne, senza tenere la parità come asse principale, attraverso lo sviluppo dell’occupazione e di un piano straordinario di infrastrutture sociali, significa impoverire tutti. Abbiamo centinaia di nomi femminili da proporre per essere nominate in qualunque comitato si voglia inaugurare”. Chiaro il messaggio sottinteso: non ci si trinceri dietro la scusa della mancanza di competenze, “c’è solo l’imbarazzo della scelta”.
Ma anche all’interno del Governo e tra le parlamentari la guardia è alta. La ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova (Italia Viva), ha avvisato: “Immaginare che la cabina di regia del Recovery Fund possa essere di soli uomini è avere la testa nel passato. Noi dobbiamo avere la testa nel futuro: siamo una società paritaria, uomini e donne devono partecipare entrambi alle decisioni per l’avvenire del Paese”. Anche la senatrice del Pd ed ex ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha avvertito: la struttura tecnica dovrà essere “paritaria nella sua composizione” e dovrà “prendere decisioni sulla base di una valutazione ex ante dell’impatto di genere delle misure adottate, come chiesto anche dal Parlamento europeo il 9 novembre scorso”.
L’argomento dirimente è uno: nel bilancio dell’Unione e nel pacchetto Next Generation Eu la promozione della parità tra uomo e donna nel processo decisionale è indicato come target chiave, da perseguire integrando la dimensione di genere in tutte le politiche e in tutti i programmi. Le linee guida del piano italiano individuano a cascata nell’inclusione di genere, sociale e territoriale una delle sei missioni da tradurre in progetti. Non si può pensare di promuovere efficacemente l’uguaglianza e la parità senza partire dalla stanza dei bottoni. Predicare bene e razzolare male in questo caso assesterebbe un colpo alla crescita e alla ripresa. Il momento è adesso, qualunque sarà la scelta. Non ci sono più alibi.