E’ il momento di farci nuove domande per progettare meglio il mondo che verrà

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Adesso, proprio adesso che siamo nel punto più basso della curva che contraddistingue le crisi – quello della disillusione e della fatica che seguono la cosiddetta “luna di miele” – adesso è il momento in cui le analisi e i piani che faremo determineranno il punto di ripartenza del sistema.

Sarà quello del pre-crisi, sarà più basso oppure, come spesso avviene nelle grandi transizioni che ci consentono di evolvere, sarà più alto e ci metterà nelle condizioni di vivere tutti meglio?

Pensiamo al mondo del lavoro: sono già in corso le analisi di come è andata, alla ricerca della formula per determinare quale potrebbe essere il nuovo modo di vivere e di lavorare che mette insieme il meglio di entrambi i mondi: la serendipità delle pause caffè con l’efficienza delle riunioni digitali, la flessibilità del lavorare da casa con il bisogno di ripristinare certi confini e certe sicurezze. Sappiamo che in questi mesi le persone hanno lavorato di più (48,5 minuti al giorno in media), che le riunioni sono diventate più brevi del 20% ma aumentate di numero del 12,9%, e che anche il numero dei partecipanti è aumentato del 13,5%. Sappiamo che il numero di email mandate è salito del 5% – che potrebbe sembrare poco, se non sapessimo che nel 2020 vengono mandate ogni giorno 306,4 miliardi di email.

Da qualche parte si comincia a sentire che il numero ottimale di giorni di smart working settimanale potrebbe essere due ma non tre, che dovremmo comunque ufficializzare il “diritto alla disconnessione” e che nessuno ha ancora veramente capito se i benefici del lavorare da casa compensino gli svantaggi in termini di sbilanciamento, di assenza di confini fisici tra le diverse dimensioni delle persone.

Lavorando da anni nell’innovazione e avendo visto quanto è veramente difficile cambiare il modo in cui si fanno le cose, intravedo in questo momento lo stesso pericolo che si presenta ogni volta che il cambiamento è così veloce e ampio che consente solo di abbracciarlo, senza poterlo gestire.

Succede infatti che la risposta data “in emergenza” ai nuovi bisogni emersi diventi la base dati da analizzare per prendere decisioni per il futuro.

Ma le soluzioni di emergenza sono per definizione sub-ottimali: sono a breve termine, risolvono un pezzo alla volta e non fanno spazio a una visione di vera innovazione. E infatti già sembra che nel dibattito gli elementi più rilevanti da considerare siano byte, chilometri e minuti, mentre l’opportunità che abbiamo davanti è quella di cambiare realmente e profondamente il modo in cui lavoriamo e viviamo. Cambiarlo per renderlo adatto alla realtà di persone sempre più ricche e complesse, che hanno costruito un mondo in cui il cambiamento è continuo e che hanno la responsabilità di renderlo sostenibile. Cambiarlo non solo trasferendo vecchi contenuti in nuovi contenitori, come l’illusione che la tecnologia abbia poteri maieutici ci porta a fare, ma lavorando prima di tutto proprio con il contenuto umano, e lasciando che sia il contenitore a seguire.

La principale debolezza di questo approccio è che non lo si può basare sui dati, perché l’innovazione vera, per definizione, riguarda cose che non abbiamo ancora provato, visto o fatto. Cambiare prospettiva e progettare qualcosa di nuovo ci richiede quindi di lavorare a un universo di senso comune che non poggia solo su statistiche, ma anche su uno sforzo di volontà e condivisione di obiettivi che ci responsabilizza tutti: quello che decideremo di fare dopo la pandemia, come decideremo di farlo e gli effetti che avrà non potranno infatti avere orizzonti di breve respiro.

Tutto ciò che si è rivelato insostenibile lo era già prima. Occorre coraggio per innovare davvero, perché ci sono sempre delle soluzioni alternative che hanno più dati a supporto di quanti possa presentarne un’innovazione. Ma continuare a farci vecchie domande renderà impossibile dare vita ad una nuova realtà che oggi rappresenta per tutti noi un bisogno vitale, di sopravvivenza.