L’undicesima edizione del festival della Fotografia etica assume quest’anno un sapore particolare: è nel cuore della provincia di Lodi infatti, nell’ospedale di Codogno, che il 21 febbraio di quest’anno viene ricoverato Mattia, il paziente zero, il primo italiano contagiato dal Covid 19. In un certo senso è dal lodigiano che tutto quello che stiamo ancora vivendo è iniziato e le notizie di cronaca, che in questi giorni e anzi in queste ore si fanno via via sempre più insidiose, non fanno che accrescere la temperatura emotiva che attraversa numerose storie ospitate nel festival.
Quest’undicesimo anno della rassegna presenta diverse novità: innanzi tutto il prolungamento a 5 settimane anziché 4 come nelle precedenti edizioni, che permette le visite nei weekend fino al 25 ottobre. Inoltre l’allestimento di varie mostre all’aperto, in chiostri, parchi e giardini, accessibili gratuitamente anche durante la settimana, perché le persone possano appropriarsi della fotografia, viverla, sentirla presente nel quotidiano, soffermandosi magari su qualche immagine nella pausa pranzo del lavoro o mentre si ritorna a casa con i figli da scuola.
C’è poi una terza novità: per la prima volta il festival esce dalla città, grazie alla felice intuizione degli organizzatori, i quali hanno compreso l’alto contenuto simbolico di collocare la sezione La vita al tempo del Coronavirus, liberamente visitabile, nella piazza del comune di Codogno. Qui, grazie a una call internazionale promossa dal Festival in collaborazione con l’associazione Roma Fotografia, TWM Factory e le riviste “Il Fotografo” e “The Walkman Magazine”, possiamo vedere una selezione di foto giunte da tutto il mondo a formare una vera narrazione collettiva sull’impatto globale della pandemia, che ha tristemente unificato tutte le nazioni.
Spostandoci a Lodi possiamo idealmente partire dai Giardini di viale IV novembre, dove sono raccolti i 30 scatti singoli della sezione World Report Award, fra i quali la foto simbolo dell’emergenza Covid19, scelta come immagine di comunicazione della manifestazione: raffigura Elena Pagliarini, l’infermiera dell’ospedale di Cremona addormentata sulla sua postazione dopo un turno massacrante. È una foto amatoriale, scattata non da un professionista, ma da una collega, la dottoressa Francesca Mangiatordi, che ha confessato come il suo primo impulso fosse stato di abbracciare Elena, ma di avere poi preferito immortalare quell’attimo.
È questa dote che rende unica la fotografia: ognuno, indipendentemente dalla sua abilità tecnica, ha la possibilità di cogliere un momento irripetibile, fermare un istante nel quale il flusso del tempo si increspa, diventa denso e, come un bicchiere colmo, trabocca di emozioni, significati, narrazioni. Un altro tassello nel racconto della Pandemia che cambia il mondo (questo il titolo del reportage) si trova al palazzo della Provincia, affidato ai reporter della prestigiosa AFP, l’Agence France Press: mi piace sottolineare in molti di questi scatti l’incredibile spettacolo dell’ingegnosità con cui le persone hanno coltivato la resilienza e la voglia di non rinunciare, nonostante tutte le difficoltà, ai propri compiti e passioni, come le due giovani tenniste di Finale Ligure, che si sono allenate palleggiando tra loro da un tetto all’altro delle proprie case!
Ma il Festival non è dedicato al Covid, il titolo di quest’anno, “Sguardi sul nuovo mondo”, ribadisce la fedeltà al fotogiornalismo inteso come racconto delle molteplici storie del presente, spesso con una costruttiva attenzione al nuovo che si intravvede tra le sue maglie, sorretto dalla fiducia nella capacità della fotografia di scoprire, documentare, far comprendere ed emozionare.
Le eleganti stanze secentesche di Palazzo Barni, a due passi dai portici di piazza della Vittoria, ospitano il cuore del Festival, rappresentato dai vincitori della sezione World Report Award.
Nello spazio tematico Madre Terra, To the Left of Christ del romano Dario De Dominicis è un coinvolgente reportage sull’impressionante degrado ambientale che i rifiuti delle industrie petrolifere stanno infliggendo alla baia di Guanabara, il porto naturale di Rio de Janeiro, mettendo in ginocchio la comunità di pescatori artigianali che da sempre qui vive e lavora, rifornendo tra l’altro i grandi mercati del pesce della stessa Rio. Il bianco e nero scultoreo, dai potenti contrasti di ombre profonde e sciabolate di luce, richiama il rigore morale dello sguardo di Sebastiao Salgado, squarciando il velo sulle finzioni della retorica politica delle istituzioni brasiliane e la loro promessa che l’80% delle acque di Guanabara sarebbero state purificate nel 2016 in occasione delle Olimpiadi: le foto di De Dominicis rivelano con nuda eloquenza come quelle distese grevi di acqua densa abbiano il colore di piombo e l’appiccicaticcia consistenza del petrolio.
Il reporter russo Nikita Teryoshin con Nothing Personal. The Back Office of War è invece il vincitore della categoria Master. Sotto i nostri occhi scorrono istantanee da importanti fiere di tutto il mondo del periodo 2016-20, solo che c’è un piccolo particolare, che scopriamo poco a poco grazie all’osservazione arguta e sinistra e ai sottili, magistrali spostamenti d’inquadratura di Teryoshin: si tratta di fiere belliche, i prodotti venduti sono le più moderne armi disponibili sul mercato, i buyer internazionali ministri e funzionari della difesa dei più vari paesi del mondo, mentre i visitatori si aggirano tra grandi torte con eleganti decorazioni a forma di missile, bombe delicatamente appoggiate su cuscini di velluto rosso, generali in uniforme intenti a fotografare l’ultimo modello di fucile mitragliatore e infine, quando la fiera sta chiudendo e la giornata lavorativa finalmente si avvicina al termine, uno standista che ripone il suo lanciarazzi in esposizione al sicuro nel ripostiglio. Si sa mai che, con tutti i malintenzionati che ci sono in giro, qualcuno di notte …
Nella sezione Student il vincitore è il tedesco Ingmar Björn Nolting con “Measure and Middle” – a Journey Through Germany during the COVID-19 Pandemic, un viaggio nella Germania del lockdown (dal 25 marzo all’8 maggio), capace di suscitare sentimenti contrastanti, come la tenerezza mista a disagio che traspare nelle foto dei giovani fidanzati al confine tra Germania e Svizzera, costretti a parlarsi e sfiorarsi al di là di una rete metallica, alzata proprio per evitare pericolosi contatti.
Incontriamo poi due lavori accomunati dall’approccio al reportage: il primo è Dispossessed della britannica Mary Turner, sui problemi sociali che la crisi dell’industria carbonifera ha creato nell’Inghilterra del nord-est, bellissimo esempio di un’indagine fotogafica basata sull’empatia e la sincera volontà di entrare in relazione con le persone, incontrarle nell’accezione più profonda, per cercare di conoscere per quanto possibile dal di dentro la realtà in cui vivono. Sono immagini possibili solo quando si stabilisce un rapporto vero, di fiducia, tra le persone raffigurate e il fotografo. Lo stesso rapporto che ha permesso alla napoletana Rosa Mariniello di realizzare Vitiligo, affrontando con finezza e sensibilità il difficile tema della vitiligine, una malattia che ha le tristi stigmate del tabù, per l’effetto respingente che esercita sulle persone, determinando così isolamento sociale e grande disagio personale in chi ne è affetto.
È impossibile rendere conto dei numerosi altri lavori nelle diverse sedi, per non parlare del circuito off del festival, grazie al quale bar, negozi e ristoranti della città sono punteggiati di fotografie che fanno capolino sopra la testa degli avventori, ammiccando e richiamando un po’ della loro attenzione. Voglio solo accennare, en passant, a quelli che mi hanno, per diverse ragioni, colpito, a cominciare da Habibi (Amore mio) a Palazzo Modignani di Antonio Faccilongo, sulle donne palestinesi i cui mariti sono nelle carceri israeliane, spesso con condanne pluriennali, e ai complicati sotterfugi cui ricorrono per riuscire ad avere lo sperma dei propri compagni, con cui generare figli e portare avanti, in questa situazione limite, la famiglia. È un racconto diverso della Palestina, fuori dai consueti canoni del reportage da zone di guerra, incentrato sul legame familiare e il vissuto quotidiano di queste famiglie, costrette a vivere senza padre e, fino a poco tempo fa, osteggiate perfino dalla loro stessa comunità, in quanto la procreazione in vitro non era considerata accettabile dalla comunità religiosa.
Nella nuova sede espositiva della Banca Centropadana troviamo Pathos del torinese Giorgio Negro, vincitore del Premio Voglino, le cui foto dal bianco e nero espressivo e la costruzione calibrata e straniante sanno far vibrare corde profonde dentro di noi, mentre nell’ex chiesa dell’Angelo (per la sezione Storie di coraggio) l’americana Maggie Steber ne La storia di un volto accosta con sensibilità e rispetto la vicenda perturbante della giovane Kate Stubblefield, sfigurata dal tentato suicidio a 18 anni, sottoposta a numerosi interventi e finalmente, due anni dopo, al primo trapianto facciale integrale negli Stati Uniti sulla paziente più giovane della storia.
Voglio concludere con l’olandese Jasper Doest e il suo festoso reportage colorato in rosa e arancio, come il piumaggio del simpatico ma molto consapevole di sé fenicottero caraibico protagonista di Flamengo Bob. È il racconto dell’amicizia tra Bob e Odette, la cugina di Jasper veterinaria nell’isola di Curaçao, che, una volta curato l’uccello dopo un incidente, capisce di non poterlo reinserire in natura e decide di tenerlo con sé come un animale quasi domestico, facendolo diventare un prezioso ambasciatore per sensibilizzare i nativi sull’importanza di proteggere la fauna selvatica. In queste foto si rende palpabile non solo l’intelligenza e la sorprendente capacità di adattamento di Bob, ma anche il forte legame affettivo creatosi tra la donna e il fenicottero, capaci di vivere assieme nel rispetto reciproco delle proprie specificità. Un bel messaggio con cui salutarci.