“Avevo otto anni quando sono stato diagnosticato come dislessico, disgrafico e gravemente discalculico. Ricordo che fu un momento importante della mia vita, perché, siccome non sapevo fare le cose come le facevano tutti i miei compagni, prima di quel giorno io ero convinto di essere stupido“. Sono i famigerati DSA, i disturbi specifici dell’apprendimento, quelli di cui parla Francesco Riva nel suo monologo teatrale e nel suo secondo libro, appena uscito.
Un libro ironico, allegro, che trasmette la forza nata da un’esperienza difficile, una fragilità che diventa risorsa. “Ho portato il mio monologo in tante scuole, fatto oltre 160 repliche, ho conosciuto tante famiglie, tanti bambini, voglio far capire quanto ognuno di loro, ognuno di noi, sia unico per come è. Un giorno, alla fine dello spettacolo, di fronte a 300 bambini di quinta elementare e prima media, durante il dibattito che facciamo di solito si è alzato e mi ha chiesto: ‘Scusa, come faccio a diventare dislessico?’. Beh, per me è stato davvero un momento speciale!“. Nel monologo e nel libro “Dove sei Albert?”, edito da De Agostini, tratto dalla sua esperienza personale, Francesco parla del disagio vissuto a scuola, della famiglia che deve accettare e gestire una diagnosi e del rapporto con i pari, gli amici e i compagni di classe.
“Raccontare la mia storia per me era un’urgenza – dice Francesco – perché di dislessia non si parla mai abbastanza. Basta pensare che il 3,2% della popolazione scolastica è fatta di dislessici, si tratta di un numero importante ma la scuola – e spesso anche le famiglie – non sempre riescono a gestire queste situazioni“. La scuola ha sicuramente un ruolo centrale nel racconto e nell’esperienza dell’autore: “Certo, parlare di scuola nel momento attuale non è facile – sottolinea – ma parlarne nel campo dei DSA è fondamentale perché significa davvero improntare la didattica sul vero valore della persona“.
L’esperienza personale, da cui è tratto il racconto, è quella di una scuola “difficile”. “Ho avuto insegnanti fantastici, ma anche insegnanti che non capivano il mio problema e non avevano neanche la volontà di comprenderlo fino in fondo. Ecco, c’è stato però il maestro Andrea, che resta per me il modello: grazie a lui ho capito che per insegnare la vera cosa importante è l’empatia, la capacità di mettersi in una relazione reciproca e di scambio. O anche, la mia insegnante di italiano che capiva, per esempio, che per scrivere i dettati io avevo bisogno di più tempo e non solo me lo dava, ma cercava sempre di non farmi sentire solo e diverso rispetto agli altri“. Oltre a questi, però, ci sono stati gli insegnanti incapaci di guardare alla persona e capaci di concentrarsi solo sulla mancanza. Così come i compagni che “ti fanno sentire diverso, che ti bullizzano“.
Il problema, per chi ha un disturbo catalogato tra i DSA è che, se il disturbo non viene riconosciuto può essere confuso con altro (per esempio con un deficit cognitivo, oppure con cattiva volontà) e rendere davvero difficile il percorso scolastico e di crescita emotiva. “Il problema è che ogni cattivo risultato era un colpo all’autostima“, ricorda Francesco. La svolta, per lui, è stata quella di trovare il contesto giusto per esprimersi: il teatro, sicuramente, che è poi diventato la sua professione, ma anche il liceo. “Me lo avevano sconsigliato, ovviamente: il liceo linguistico pareva una sfida troppo alta per me. Ma io ero convinto, volevo studiare le lingue e l’ho fatto e sono riuscito. In quel caso la volontà ha fatto la differenza“. Al liceo, poi, si è creato “un gruppo di sostegno per DSA, all’inizio eravamo in 5 e ci siamo riscoperti in 175, aiutati dal preside e dagli insegnanti che ci seguivano“.
Il contesto, quindi conta, soprattutto a scuola. Ma anche il ruolo della famiglia è fondamentale: “I genitori hanno spesso delle aspettative sui propri figli, non accettano che il proprio figlio abbia una difficoltà. Ci sono ancora molti genitori, molte famiglie che per un problema che è culturale negano, minimizzano, nascondono. Oppure eccedono nella iperprotezione del figlio. Nel mio caso ho avuto la fortuna di avere una famiglia molto equilibrata, che mi ha aiutato, sostenuto e capito e questo è fondamentale“. Contesto che è anche contesto sociale: “Nel momento in cui ricevi la diagnosi – dice ancora Francesco – hai bisogno di tutta una serie di informazioni, associazioni, comitati di genitori, sportelli DSA che ormai esistono nelle scuole. Serve una rete e va trovata, è fondamentale“. Il vero problema, quindi, non è tanto ciò che non si riesce a fare, ma come questa situazione viene gestita. “Se si normalizza e si affronta con gli strumenti adeguati può essere gestita in totale serenità, mentre in caso contrario sì che può provocare danni seri, in termini di autostima e di crescita equilibrata“, dice Francesco.
“Più che disturbo – conclude Francesco – la dislessia la chiamo caratteristica, è una caratteristica personale. Serve anche un po’ di ironia per averci a che fare… E poi, se pensiamo che dislessici erano personaggi come Albert Einstein o Agatha Christie… beh, non è così male!“. In effetti, ecco perché poi uno si chiede: “Ma come faccio a diventare dislessico?”.
Il 5 ottobre alle ore 21 ci sarà la presentazione di lancio del libro “Dove sei Albert?” al Circolo dei Lettori di Novara, il 7 ottobre alla Libreria Rinascita di Ascoli Piceno e il 9 ottobre a Bologna.