Ancora isolate, ma questa volta causa Covid. Non è un sentimento nuovo per le comunità del Brasile del sud. Qui vive quella italiana più grande del mondo, con 30 milioni di persone, metà veneti e trentini. Giorgia Miazzo quando è scoppiata la pandemia, stava accompagnando una delegazione veneta negli stati di San Paolo e Santa Catarina. “Siamo tornati appena in tempo, anche se per un periodo chissà quanto lungo non potrò più fare ritorno” dice Giorgia.
Giorgia è consulente linguistica, interprete e traduttrice, esperta della cultura dell’America Latina, specializzata nelle migrazioni italo-venete, ed è stata in Brasile l’ultima volta a febbraio. Era partita ancora una volta da Padova, come consuetudine, per operare sulla valorizzazione dei dialetti e della lingua madre. Ha sempre avuto il cuore diviso tra il Veneto e l’America Latina. Il fatto di vivere con comunità italiane all’estero le ha consentito di dare uno spaccato antropologico ai suoi studi, ma soprattutto calore alle tradizioni. “Un motivo di orgoglio, la sacralità delle radici, la nostra storia, il rito dello stare insieme”.
Viaggia da 25 anni, si è fermata in vari luoghi. Ha iniziato a Madrid lavorando sull’integrazione delle donne emigrate all’estero. “Il mio grande amore per l’America Latina è nato quando ci sono stata per la prima volta a 12 anni” confida. Ha conosciuto gli Stati Uniti, il Canada, poi i Caraibi, l’Honduras, il Venezuela, il Perù, ha vissuto a Santo Domingo, ha poi operato in Argentina, Uruguay e Paraguay. E per molti anni in Brasile. A Rio de Janeiro e a sud, nello stato di Santa Catarina. “
Dopo le lezioni di italiano che davo all’università, ogni venerdì prendevo l’autobus viaggiando tutta la notte per andare a conoscere le varie comunità italiane. Mi sono fermata per mesi e innamorata del loro grande attaccamento verso la regione di partenza degli avi, per la maggior parte il Veneto. Sono nata in un paese in provincia di Padova” racconta Giorgia, proseguendo: “Mia madre mi proibiva di parlare dialetto, una lingua a lei poco consona. A scuola ero l’unica che parlava italiano e venivo bullizzata dai bambini. Quando sono arrivata in queste comunità in Brasile parlavano solo in veneto e questa avventura mi ha fatto rivivere il disagio e la vergogna di non poter parlare la lingua locale e allo stesso tempo sentire il valore dell’orgoglio e il potere della nostalgia”.
Dal 2007 Giorgia si prende cura di questa realtà. Si reca periodicamente in Brasile, dove svolge corsi e giornate di studio per università, scuole, amministrazioni pubbliche, enti e associazioni. Ha raggiunto più di 30mila studenti e oltre 400 paesi e città. Come ricercatrice raccoglie materiale inedito negli archivi e nelle case, registra centinaia di bambini, adolescenti, ma soprattutto adulti e anziani. L’obiettivo ultimo del suo progetto è ridare l’orgoglio e la dignità di parlare il veneto-brasilian, un miracolo linguistico che in Brasile si conserva da 150 anni all’interno di centinaia di comunità sparse in oltre 7 stati.
“Esiste un sentimento misto, dal bisogno di non perdere la lingua madre quale pilastro della storia migratoria, alla vergogna di parlare un idioma tramandato alla sesta persino settima generazione, giunto da migranti umili, analfabeti e convinti che il loro fosse il linguaggio dei poveri e degli ignoranti, quello degli schiavi bianchi” spiega Giorgia “che vanno a soppiantare la schiavitù nera o ancor di più a colonizzare vaste terre vergini bisognose di bravi contadini. Arrivano braccia forti e teste tenaci, caratteri morigerati e spiriti cattolici, pronti a dare la vita per ottenere un futuro migliore, realizzando sia il sogno italiano di alleggerirsi di bocche da sfamare, che quello del governo brasiliano di creare una nuova Europa, bianca, imprenditoriale e all’avanguardia. Non vengono però trattate come persone da acculturare, ma lasciate nella foresta per decenni senza ausilio e sostegno. In condizioni estreme di sopravvivenza solo la lingua, la fede, la famiglia e il patrimonio folclorico salvano questa gente dimenticata da tutti”.
Le donne sono il perno dell’emigrazione. “L’uomo aveva bisogno delle donne per creare la famiglia, arrrivando ad avere anche quindici, venti figli. L’uomo lavora nei campi e la donna è un supporto indispensabile, si alza alle tre di mattina, senza sosta e senza aiuto fa tutto ciò che serve per la famiglia, sovente aiuta anche nel lavoro. “Delle anziane che hanno vissuto grande parte dell’emigrazione ho visto le mani distrutte e i volti molto segnati dalle intemperie e dagli stenti. Sono occhi che hanno fatto la loro guerra. Eroine anonime, instancabili guerriere”.
Nel suo libro “Le grandi Migrazioni. Dal nord Italia al Brasile” (ed. Panorama), Giorgia racconta alcune storie di donne. Anna Rech è una delle prime donne della grande emigrazione. Parte da Feltre, vedova con sette figli, di cui due con gravi problemi di salute. Fatica a partire, diventa capofamiglia, arriva in una zona agricola di Caxias do Sul (RS) e negli anni con fatica e tenacia riesce a creare un alloggio e luogo di ristoro per viandanti. “Anna Rech è molto di più, è una persona dall’animo generoso e presto diventa un riferimento per la comunità” racconta Giorgia “Una donna che consiglia, aiuta e opera come levatrice percorrendo anche decine di chilometri per raggiungere le partorienti in mezzo alla foresta”. Diventa il simbolo della comunità migratoria, tanto che un quartiere prende il suo nome, quello di Anna Rech, e tuttora viene frequentato con grande rispetto e orgoglio.
Un’altra storia commovente è quella di Luigia Carolina Zanrosso Eberle, conosciuta come “Gigia Bandera”. Partita con il marito e molti figli, la vita in Brasile non si presenta facile. Con forte spirito imprenditoriale e coraggio, decide di accettare la proposta di gestire da sola una piccola lattoneria, dove forgia i materiali, lavora i coltelli, gestisce la parte contabile e si occupa dei clienti. Con il tempo, sussidiata anche dal figlio maggiore Abramo, il piccolo laboratorio cresce sempre più fino a diventare quella che oggi conosciamo con il nome di azienda Eberle spa. A lei viene dedicato anche il trofeo di un premio, chiamato appunto “Gigia Bandera”, che rappresenta la forza di una donna pioniera dell’industria metallurgica e siderurgica italiana in Brasile.
Giorgia durante le sue ricerche in Brasile come linguista lavora sul patrimonio dei canti e della musica. Scrive un libro per aiutare i veneti in Brasile a non dimenticare la lingua madre, utilizzando le musiche come base didattica per apprendere fonetica, vocabolario e sintassi. Quella brasiliana è la più grande comunità italiana nel mondo con più di 30 milioni e il 40 per cento di questi è di origine veneta. “I veneti partono dopo i tedeschi e prima dei polacchi. Erano bravi a disboscare le terre vergini e costruire paesi e città. Arrivano in zone disantropizzate e rimangono isolati per anni senza alcun contatto con altre comunità. C’è la paura di morire, si vive nella disperazione, così la forza e la comunità rappresentano le uniche possibilità di salvezza”.
In certe zone del Brasile hanno ripreso la toponomastica delle città italiane e venete, utilizzando gli stessi nomi di alcuni paesi, come Nova Veneza, Treviso, Nova Vicenza, Nova Belluno, Nova Roma do Sul, Nova Serdenha, oltre a conservare le tradizioni gastronomiche e folcloristiche come le feste della polenta, i filò, il gioco della mora e le messe in dialetto. Secondo Giorgia “la sacralità del canto diventa motivo di sfogo e attaccamento all’Italia. Le musiche raccontano i costumi e le tradizioni, utilizzano i ritornelli e i modi di dire. Cantare insieme per sentirsi comunità diventa un antidoto contro il dolore per dimenticare la nostalgia e sopportare la difficoltà. La lingua diventa ancora di salvezza, aiutando lo spirito e animando il cuore”.
Ora in Brasile le città che hanno costruito sono enormi, molti di loro sono diventati importanti imprenditori, altri bravi professionisti e le donne sono indipendenti.
In un momento in cui la globalizzazione si sta fagocitando le lingue locali e con esse la loro identità, si riflette sul valore che rappresentano queste comunità aggrappate alle loro origini come all’inizio. Le lingue madri sono sacre.