Difficile scegliere di che cosa scrivere oggi. Avevo in canna un pezzo su come fare brainstorming da remoto, ma da domani sarò in vacanza e forse posso smettere di parlare di lavoro per un po’. Ieri negli uffici della mia azienda c’erano riunioni, voci, progetti in corso. Mi sono sentita sollevata, fisicamente. Io vado, tanto ci sono loro. L’azienda è in buone e belle mani: possono fare a meno di me.
Quasi impossibile, però, smettere di programmare. Anche la vacanza è programmata, le valigie sono dei progetti, la check list si allunga tra antizanzare e spazzolini da denti. Le cose mie, quelle dei miei figli, quelle da portare e quelle da nascondere, i numerosi “piani B” in caso di dimenticanze o furti.
Non posso smettere di essere me: un pensiero continuo che fa da costante rumore di fondo e pianifica, prevede, aggiusta, fa succedere cose. Mi viene in aiuto un bell’articolo dell’Harvard Business Review scritto da Peter Bregman, ceo della Bregman Partners, dal titolo: “Lasciati essere improduttivo, almeno per un po’”.
Peter ha appena perso il padre e racconta della tentazione di accelerare in avanti per lasciarsi il dolore alle spalle. Ma poi parla anche della voglia di starci, con il dolore, che porta con sé la dolcezza del padre e tutto quello che è rimasto anche se lui non c’è fisicamente più. La perdita fa riflettere Bregman sul senso del rallentare, del non essere “sempre produttivi”. Stiamo sempre facendo qualcosa, dice, e spesso anche più cose insieme. Uscendo mettiamo gli auricolari per fare telefonate o ascoltare musica mentre andiamo, stiriamo guardando le serie tv, in qualche modo abbiamo sempre il controllo, e proviamo a mantenerlo anche quando il cuore trema senza dirci perché.
E se invece lo ascoltassimo tremare? Se mettessimo “pausa”, perdendo il senso di controllo? Bregman ha una ricetta per “non fare”, che presenta come
“Prova a rilassare la pressione su”:
1) il tuo tempo: banalmente (ma neanche tanto) lascia l’agenda vuota. Fai delle cose da solo, prendi la strada più lunga. Non ottimizzare, annoiati – come diciamo sempre che dovrebbero fare anche i bambini, che invece nelle loro giornate strapiene fanno da specchio alle nostre ansie di vuoto.
2) Il tuo pensiero: lascia che si perda. Non usarlo sempre, non pensare tutto il tempo (non ruminare, direi io). Ma non meditare nemmeno, dice Peter: anche la mindfulness è un “fare”, anche la mindfulness è una performance. Esci senza auricolari, senza musica, senza niente (tranne la mascherina…).
3) Le tue relazioni: può capitare di voler stare proprio da soli per un po’. Invece i messaggi arrivano e scatta il contatore dell’attesa dell’altro: quando risponderemo e come? Ci parlano e pensiamo che ci venga sempre richiesto un parere, una posizione. Parliamo ed è quel che riceviamo: anche il dialogo diventa produttivo. Autorizziamoci, qualche volta, ad ascoltare e basta – o a chiedere solo di essere ascoltati, senza commenti.
Nel silenzio emergono i suoni: da dentro e da fuori. Quel respiro tanto a lungo trattenuto si fa spazio, si rivela un’emozione, e il cuore trova un posto. Per essere triste, per essere stanco, per riposare e riempirsi ancora.
Vacanza vuol dire vuoto. Buona vacanza, dunque, alle nostre menti e, soprattutto, ai nostri cuori.