“Cara capra, come ci si innamora? Si casca? Si inciampa, si perde l’equilibrio e si cade sul marciapiede sbucciandosi un ginocchio, sbucciandosi il cuore?”.
L’incipit della lettera d’amore del romanzo di Cathleen Schine è una domanda molto attuale oggi, alle porte dell’estate più socialmente complessa di questo secolo. Un’estate in cui, come ha scritto il professor Carlo Ratti sul Corriere della Sera del 2 luglio, a causa del distanziamento sociale siamo a corto di “legami deboli”: una gran brutta notizia per chi sta ancora cercando l’amore. Non sorprende quindi che, dopo un calo durante i mesi del lock down, il numero di interazioni sulle app di dating sia tornato a crescere, al punto da far coniare a Tinder la definizione di “swipe surge” (picco di contatti) per identificare momenti particolarmente caldi e ricchi di movimento.
Si, ma che tipo di movimento? Se è vero che negli Stati Uniti oggi nasce online una coppia su tre, stiamo forse sottostimando l’influenza che il funzionamento stesso delle app di dating sta avendo nell’insegnarci “come” scegliere le persone da conoscere e come farci conoscere. E’ l’argomento della tesi di Jacopo Di Puglia, laureando in design del prodotto per l’innovazione al Politecnico di Milano, dal titolo “Realness. L’app come luogo di incontro tra socialità digitale e interazione fisica”.
“Realness” è una parola che non ha una traduzione italiana precisa e indica “ciò che veramente esiste”: quanto c’è, insomma, di virtuale e quanto di reale degli incontri resi possibili dalle app di dating? E quanto reali siamo noi, quando ci mostriamo in quei luoghi? Portiamo online una versione di noi, oppure l’occasione ci dà la possibilità di estendere ciò che siamo anche ad altro: nella nuova dimensione esprimiamo dunque nuove identità? La scienza delle relazioni online è ancora troppo acerba per dare delle risposte, certo è che sbaglieremmo se pensassimo che il modo in cui ci incontriamo non influenzi pesantemente le regole di ingaggio e le possibilità che abbiamo di esprimerci, limitando persino la nostra capacità di scegliere.
Come? Banalmente, anche solo con il meccanismo dello “swipe”, ovvero lo scorrimento dei profili che Tinder propone. Che cosa vediamo e valutiamo, infatti? Ovviamente l’aspetto fisico, o meglio una o più foto che dovrebbero rivelarci qualcosa dell’aspetto della persona. Secondo Jean Meyer, ceo dell’app di dating Once, le donne ci mettono in media dieci secondi a valutare un profilo, e gli uomini solo cinque.
“Chi non ha almeno una foto di sé in cui assomiglia a Brad Pitt?”
commenta il laureando Di Puglia: la sua tesi cita quindi le ricerche di Hannah Fry, ricercatrice presso la University College London e autrice del libro “La matematica dell’amore“, secondo cui dovremmo invece mettere in risalto quello che ci rende differenti, inclusi i particolari che ad alcune persone potrebbero non piacere (sì, proprio i “difetti”), e così avremmo maggiore successo, o quanto meno più possibilità di attrarre persone realmente affini. Al contrario, secondo i ricercatori Holland e Tiggemann della Flinders Univeristy, l’estremismo estetico comune a tutti i social fa sì che, “all’aumentare del tempo totale speso sui Social Network e al crescere del numero di amici o follower su piattaforme come Facebook e Instagram, aumenti anche, a distanza di poche settimane, l’insoddisfazione nei confronti del proprio corpo”, facendoci in conclusione sentire più vulnerabili.
Metterci in gioco, quindi, mostrando innanzitutto l’argenteria migliore, è più che normale ma rischia di essere inefficace. Secondo uno studio del Pew Research Center, chi usa le app di dating si dice più frustrato (45%) che speranzoso (28%), ma quello che evidentemente difetta è proprio la capacità di queste app di cogliere e far cogliere la complessità di chi siamo: di far vedere altro oltre alle foto.
Resta comunque un vantaggio principale di queste app che, come sottolinea Jacopo, sono:
“Un’arma per combattere il destino: per recuperare delle persone che forse non avresti mai conosciuto in vita tua”.
Una possibilità quasi magica di muoversi al di là dei classici due gradi di separazione rappresentati dagli amici degli amici: in un universo infinito di legami deboli. Volendone cogliere questo vantaggio, le app di dating più diffuse oggi hanno tre caratteristiche con cui fare pace per consentirsi di usarle senza affaticare troppo l’anima:
1) la manifesta disponibilità: come ha dichiarato Sean Rad – uno dei fondatori dell’app: «Non importa chi tu sia, ci si sente più a proprio agio quando si approccia con qualcuno sapendo che questo vuole che tu approcci con lui»;
2) la leggerezza dei comportamenti: la gamification dei primi passi di costruzione di un rapporto sentimentale indotta dai meccanismi delle app obbliga ad adottare maggiore leggerezza nel valutare sia gli altri che sé stessi: non si tratta di giocare con i sentimenti – i contatti delle app sono più simili ad approcci “da bar” – ma di allenarsi a tollerare continui errori di valutazione propri e degli altri, in un procedere per prove ed errori che, se è fatto in modo consapevole, fa un gran bene al ridimensionamento del proprio ego;
3) la possibilità di scomparire: fare pace con l’idea che in qualsiasi momento e per motivi del tutto indipendenti da noi, la persona con cui stiamo parlando possa farci il cosiddetto “ghosting”, scollegandoci senza neanche un saluto. Scomparendo, insomma, nello stesso imprevedibile modo in cui è comparsa, possibilmente senza lasciare amarezze.