Quando un neonato piange, l’istinto ci dice di andare a prendercene cura il più presto possibile. Eppure i migliori libri di pedagogia dicono di fare l’opposto: non correre, ma fermarsi prima di intervenire e darsi il tempo di ascoltare per decidere qual è la cosa migliore da fare. Non tutti i pianti, infatti, sono uguali: non è sempre fame quel che esprime un neonato. Potrebbe essere stanco, arrabbiato, avere mal di pancia o avere solo voglia di piangere. Scegliere di non intervenire subito oppone la capacità di comprensione della parte evoluta del nostro cervello – la corteccia prefrontale – alla spinta atavica della sua parte primitiva, l’amigdala.
Nelle aziende oggi sta succedendo qualcosa di simile. Tornano o torneranno al lavoro milioni di persone che hanno un bisogno fortissimo di cura. Persone preoccupate per il proprio futuro e affaticate da questi mesi di incertezza e di doppio e triplo lavoro – o di inattività e perdita di senso, o di solitudine… anche qui le cause del “pianto” possono essere molte e diverse, come i bisogni che questo esprime.
La reazione immediata e naturale è quella di rassicurare: da più parti si predica l’assoluta trasparenza, la condivisione delle informazioni, la comunicazione come mezzo di vicinanza. Il risultato è un affollamento di messaggi e di canali come raramente ne abbiamo vissuti in precedenza, forse mai. Oltre ai necessari messaggi di servizio sulle nuove policy, abbondano le comunicazioni su ogni aspetto della situazione: comunicazioni dirette alla cura, sforzi nella direzione della trasparenza, necessità di informare e aggiornare, anche spesso nella confusione che regna alla fonte delle informazioni stesse.
Eppure, secondo un interessante articolo della neuropsicologa Julia DiGangi, l’informazione non sempre ha l’effetto di aumentare il senso di sicurezza. “Un cervello stanco” dice la dottoressa, “non ha bisogno di altre cose a cui pensare”. Per questo, nel suo articolo la dottoressa propone di sostituire la sovrabbondanza di informazioni con la “chiarezza radicale”. Il cervello ansioso è un maestro di reattività, non di produttività: tende a cercare molte cose in modo superficiale, ma nei fatti non riesce a risolverne nessuna.
“Per definizione, una crisi è qualcosa che supera le nostre capacità di gestione. Tornando al lavoro, avremo una tendenza malsana a dirigere la nostra attenzione a molte più questioni di quante le nostre risorse possano gestire.
Se l’obiettivo è quello di guidare i dipendenti attraverso una nebbia di informazioni, allora la soluzione non è l’abbondanza di informazioni ma la chiarezza radicale. La chiarezza radicale è diversa dalla trasparenza perché richiede di scegliere quali informazioni sono utili e quali no; vuol dire decidere che cosa è prioritario e che cosa non lo è”.
Non correre dal neonato che piange, però, è faticoso: sia per il genitore che per il neonato. Entrambi sentono un senso di disagio, e lo stesso effetto potrà avere un atteggiamento verso una comunicazione più focalizzata e selettiva. La neuropsicologa, come i pedagogisti, ci dice che questa fatica non è il segnale che stiamo sbagliando, ma che stiamo crescendo e facendo crescere gli altri.
“Tutti sanno che il cambiamento è doloroso, ma la maggior parte delle persone sbaglia nel comprendere perché. La sofferenza del cambiamento non nasce solo dall’energia motivazionale che richiede, ma anche dalle cose di valore e dalle buone idee che dobbiamo volontariamente, anche se malvolentieri, lasciare indietro”.
Disagio e fatica ci segnalano dunque che siamo sulla buona strada per attuare il “compito di sviluppo” che ogni transizione porta con sé.