Primo maggio 2020: una festa senza festeggiati?

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Il 1° maggio è la “Festa dei lavoratori” in molti Paesi del mondo occidentale – quasi tutti tranne gli Stati Uniti, curiosamente, visto che è da lì che questa data trae origine, per una manifestazione dei lavoratori tenutasi nell’Illinois nel 1867 – ma quest’anno che sapore ha?

Inutile dire che i lavoratori sentono di non avere molto da festeggiare nel 2020. La festività avviene in un clima di incertezza senza precedenti, in cui viviamo il paradosso per cui molti dei diritti guadagnati hanno fatto un passo indietro davanti all’imprevisto più grande, quello che minaccia il nostro bene (apparentemente) più caro: la salute. Tutto il resto, se viene meno quella, a che cosa serve?

Negli ultimi 150 anni, non c’è stato giorno in cui le persone – che quando hanno un lavoro vengono chiamate anche “lavoratori” – non abbiano combattuto per guadagnare terreno nel difficile equilibrio tra bisogno, ambizione, tempo, paura, desiderio e cittadinanza. Quindi, di chi è questa festa del 1° maggio?

Di coloro che oggi un lavoro ce l’hanno e non l’hanno perso nemmeno per un secondo negli ultimi due mesi: continuando a prestare la loro opera ogni giorno nonostante l’insostenibile dose di paura e incertezza e la probabile solitudine che li ha accompagnati, mentre si muovevano in un mondo che appariva improvvisamente fermo.

Ma anche di quelli che hanno continuato ad avere un lavoro pur vedendolo cambiare all’improvviso e completamente: persone che sono riuscite a trovare dentro di sé la motivazione per continuare ad alzarsi la mattina, prendere posto alla scrivania, reinventare abitudini e modalità per essere produttive, ritrovarsi alla sera con gli occhi che bruciano per il troppo monitor, e intanto scoprire che non è vero che così si lavora di meno – forse anche più di prima se è possibile, ma senza ricaricarsi mai con quella vicinanza umana che fino al giorno prima ignoravano, dandola per scontata.

Ed è anche la festa di tutti i lavoratori e le lavoratrici che si sono ritrovati ad approfondire oltre ogni previsione il significato delle parole “work-life balance”: chi perché, avendo figli, ha trasformato la propria e la loro vita in un meccanismo a incastri (disponibilità di connessione internet, disponibilità di stanze, disponibilità di attenzione, disponibilità di pazienza, disponibilità di tutti, anche dei più piccoli, a resistere resistere resistere), chi perché, vivendo solo, è entrato in un’apnea sociale con l’unico palliativo di ore e ore di facebook e instagram di gruppo e una dose disumana di catene whatsapp dai video più improbabili, nell’impossibilità di trovare la concentrazione e la dose di quiete interiore necessarie per spegnere tutto e dedicarsi alla lettura – che pure dicevamo tanto tutti di volere, ah se avessi tempo quanti libri leggerei,

e poi scopriamo che non è solo un tema di tempo: libri, amici, passeggiate, sport… erano tutti pezzi di noi che si combinavano insieme, e uno da solo sembra non reggersi più.

E’ la festa di tutti coloro che si apprestano a “ritornare” lungo una scia di incertezze: chi per necessità e chi per spirito di servizio, tutti comunque piuttosto spaventati e guardinghi, perché le informazioni di questi mesi hanno coltivato molto di più la nostra capacità di avere paura che quella di sentirci capaci e autonomi, in grado di fare fronte anche a ciò che non conosciamo – nonostante sia questa la capacità che rende la nostra specie umana così unica.

Ma è anche la festa di chi quel lavoro lo sta perdendo? Il numero di persone che oggi, proprio oggi, non sa se l’etichetta “lavoratore” gli o le calzerà ancora per molto, è enorme. Un direttore di banca mi ha detto che in questi giorni, tra i suoi clienti, tre su sette stanno rimettendo le licenze. Moltissimi sono in cassa integrazione, hanno visto spegnersi dei progetti, il loro reddito ridotto al lumicino. Una mia collaboratrice voleva dimettersi per non dover prendere il congedo parentale – temendo di danneggiare l’azienda. Questa decisione, proprio in queste ore, la stanno prendendo centinaia di migliaia di lavoratori: lasciare il lavoro per occuparsi dei figli. Alternative sembra che non ce ne siano.

Ai lavoratori è sembrato rivolgersi principalmente il Governo nell’annunciare in questi mesi le proprie misure. I lavoratori in quanto cittadini attivi e necessari per far andare avanti il Paese. Ma ogni lavoratore è prima di tutto una persona, e tutte le parti di noi a cui i vari annunci non hanno parlato, mettendole in secondo piano rispetto a una ripartenza dell’economia che deve avvenire prima di tutto e tutto giustifica: quelle parti dovranno forse in un modo o nell’altro sparire da questa Festa… perché non sono state viste?

Di chi è, dunque, la festa di quest’anno? Le crisi hanno questo effetto amplificatore: come un lampo di luce così forte da essere doloroso, fanno vedere meglio e in modo acuto quel che c’era già. Ecco perché questo primo maggio sembra essere una festa triste: per i lavoratori e per tutti noi.