Sembra di vivere in un racconto di Buzzati, cantore per eccellenza della sosta davanti all’ignoto. Come i protagonisti del racconto “Le mura di Anagoor”, ce ne stiamo accampati fuori dalle porte della città, in attesa che si aprano.
«Ah, ci sono delle porte?» «Ce ne sono moltissime, di grandi e di piccole, forse più di cento. […] Non vengono aperte quasi mai. Però si dice che alcune si apriranno. Stasera, o domani, o fra tre mesi, o fra cinquant’anni, non si sa, è appunto qui il grande segreto di Anagoor».
Dopo il confinamento e lo stravolgimento della quotidianità, prima fase dell’emergenza, in cui la vita ci ha mostrato il suo lato doloroso, imprevedibile e ingiusto, si affaccia all’orizzonte il “dopo”, la fase due. Non sappiamo se sperare o temere questa apertura delle porte. E non è solo una questione di quando, ma soprattutto di come. Non sappiamo che ne sarà di noi tra qualche mese, cosa ci sarà dall’altra parte: non solo come potremo tornare a lavorare, ma come cambieranno i nostri rapporti, come potremo tenere sotto controllo i nostri gesti (e quelli dei bambini?), come limitare le distanze. Fino a quando dovremo trasformarci in statue di pietra alla vista di un vicino sul pianerottolo di casa? Per un po’ abbiamo continuato ad immaginare un dopo che fosse uguale, o almeno molto simile, al “prima”: adesso sappiamo con certezza che non sarà così.
Nuove fasi, nuove preoccupazioni. Non abbiamo ancora fatto in tempo a trovare un equilibrio, a far abituare il nostro corpo e la nostra mente al confinamento (con la sua controversa ma almeno rassicurante funzione protettiva), che con un pesante fardello, per molti carico anche di lutti e traumi, siamo chiamati ad un nuovo cambio di visione e di scenario.
Non è facile vivere appieno quando il senso di sicurezza interiore è costantemente minacciato. Continuiamo a muoverci tra mille incertezze e fonti di stress: la conoscenza di questo virus è a tutt’oggi limitata, non sempre possiamo riconoscere chi ne è portatore, non sappiamo se ne abbiamo gli anticorpi e se averli sarà sufficiente. Questa condizione, poi, ci tiene lontani da affetti e consueti punti di appoggio (pensiamo alle famiglie private del lavoro, del sostegno della scuola, dei nonni). Ci stiamo abituando, insomma, ad una condizione di minaccia che da un punto di vista psicologico conduce fuori dalla “finestra di tolleranza”, per dirla con il noto psichiatra americano Daniel Siegel.
Ma come si modifica il funzionamento psicologico in una situazione di emergenza? Il nostro sistema adattivo prevede che di fronte ai pericoli scatti un antico meccanismo di sopravvivenza, un “crisis mindset” o “mentalità emergenziale”. Se normalmente fluttuiamo all’interno della finestra di tolleranza, nella quale abbiamo un pensiero lucido e orientato, siamo consapevoli, creativi, predisposti alle relazioni e all’empatia, in presenza di una minaccia entriamo in una zona di “disregolazione”, iniziamo a sentirci fuori controllo (agitati, ansiosi, iperattivati) o al contrario troppo scarichi o apatici (ipo-attivati), distaccati da noi stessi e dagli altri. Il corpo prende il sopravvento sulle aree prefrontali del nostro cervello, implicate nel controllo degli impulsi, nella pianificazione, nelle funzioni esecutive e nell’apprendimento.
Per questo possiamo ritrovarci a combattere con la disattenzione, l’impulsività e l’iperattività. La preoccupazione diventa la priorità della nostra mente, rispondendo ad un’evidente funzione adattiva che però non tiene conto della necessità di continuare ad occuparci del resto, dei figli, dei familiari, del lavoro. In presenza di questo rumore di fondo, tutto diventa inevitabilmente più complicato.
Alcuni potranno sentirsi in preda all’ansia o potranno ritrovarsi a scattare per un nonnulla, a perdere la pazienza e il controllo, ad alzare la voce e litigare più del solito. Altri potranno sentirsi affannati, sovraccaricati, confusi e intolleranti a qualunque richiesta. Altri ancora, stanchi e demotivati, apatici e assenti, potranno sentire il desiderio di isolarsi da tutto e da tutti. Qualcuno si ritroverà ad essere iperattivo e frenetico, a passare senza soluzione di continuità da una mail all’ultimo aggiornamento sui dati COVID-19, dalla lavatrice all’aperitivo online, dalla pulizia ossessiva della casa all’allenamento con il trainer, dalla preparazione della cena all’ultima serie tv appena uscita. Molti si scopriranno continuamente con le mani nel frigo o nella dispensa. Ma tutti, tutti attualmente oscilliamo dentro e fuori da quella finestra di tolleranza di cui ci parla Siegel.
Proteggerci in questi giorni – e in quelli che ci aspettano – vuol dire allora consentirci di essere umani e impegnarci a trovare la “giusta misura” di sonno, di cibo, di lavoro, di relazioni e di attività. Impegniamoci a sentire quando per noi è “troppo”, impariamo a fermarci quando sentiamo di non farcela, misuriamo gli impegni di lavoro, imponiamoci delle pause, ascoltiamo i nostri bisogni. Proviamo a semplificarci la vita: non possiamo riuscire a fare tutto e a farlo bene. Potrà capitare di arrabbiarci per un nonnulla o di sentirci sopraffatti, ma possiamo essere saldi nella nostra intenzione di non lasciarci travolgere, di prenderci cura di noi stessi e degli altri.
Non possiamo cancellare la preoccupazione o il dolore che sentiamo, ma possiamo almeno non peggiorarlo, incastrandoci negli angoli bui della mente, nei quali siamo messi in scacco dai pensieri e dal rimuginio. Rivolgiamo a noi stessi uno sguardo comprensivo: ci è chiesto molto – di tenere a bada un pericolo – e stiamo facendo molto.
Se è vero poi che in questo momento la maggior parte di noi è privata del contatto umano, della carezza, del bacio e dell’abbraccio rassicurante di familiari e amici, dare attenzione e riceverne resta il regalo più prezioso, la più grande espressione della nostra vitalità. Oggi più che mai mi sembra una gioia quando tra mille difficoltà sento che qualcuno è vicino. Ciascuno di voi nel ripercorrere la propria esperienza di questi giorni, potrà trovare alcuni di questi momenti.
Ci tengo a condividerne uno in particolare.
Da settimane guardo i miei nipoti attraverso lo schermo di un computer. Non ho potuto correre ad abbracciarli in giorni che per loro sono stati particolarmente tristi. Un pomeriggio, dopo una lunga serie di squishy (adesso so cosa sono) e di giochi con mia nipote Elisa, al momento di salutarci mi fermo a guardarla. “Che brutto, che triste, ma è assurdo essere così lontani!” penso. Potrei cedere a questo pensiero, ma il corpo fa uno scarto di lato e supera tutto e tutti. La guardo, ci guardiamo. “Abbracciamoci!”, le dico. E allora con mia nipote sorridiamo e abbracciamo il computer. Io sto con la mia tristezza e lei (forse) con la sua, ma sento che quello scampolo di abbraccio mi rende felice. Da quel momento è diventata la nostra abitudine e il nostro rito di saluto: io e lei abbracciamo il computer. Ci rivolgiamo quel gesto eterno, quell’allungare le braccia verso un altro essere umano, come istintivamente fa un bambino dentro la culla al comparire del genitore. “Abbiamo furiosamente bisogno d’amore. Ci devono toccare le mani che sanno di cuore e poi morsi e baci tra i capelli e il furore di guardarsi. Abbiate cura di impazzire per un abbraccio” (F.Arminio).