“Ora più che mai bisogna dimostrare responsabilità e amore per la vita. Abbiate rispetto di voi stessi, delle vostre famiglie e del vostro Paese. E ricordatevi di coloro che sono quotidianamente in corsia per curare i nostri malati. Rimaniamo uniti , ognuno nella propria casa. Evitiamo che il prossimo malato possa essere un nostro caro o noi stessi”.
Viveva l’emergenza Covid-19 come tutti noi, rintanata. Dalla sua bacheca di Facebook, quelle parole arrivano come macigni. Dai social Lorena seguiva la vita di fuori, con un occhio attento ai colleghi in ospedale, perché lei era una studentessa di medicina e una tirocinante. Si premurava di fare a tutti quelle raccomandazioni che riempiono, da settimane, questi nostri giorni. L’emergenza e il contagio si fermano così, rimanendo a casa.
Lorena però in quella casa è morta, uccisa dal compagno, nell’ultima giornata di marzo. Il suo è il primo femminicidio accaduto in Sicilia al tempo del Coronavirus. E il suo nome si aggiunge a Larisa (4 marzo), Barbara (10 marzo), Bruna (13 marzo), Rossella (19 marzo), una lista in continuo tragico aggiornamento. La storia di Lorena è l’ennesima testimonianza del fatto che si può morire per violenza maschile anche se si è giovani, anche se si è istruite, anche se si ha un lavoro. Si muore perché questo Paese non riesce a proteggere le donne da compagni molesti, che restano liberi di usare violenza fino a ucciderle. Eccola un’altra catena di contagi, senza fine ma anche senza un inizio preciso.
Il problema ha un’origine che è culturale e incontestabilmente antica, si tratta di un fenomeno che fonti ufficiali definiscono strutturale globale sin dal 2002. Oggi più che mai però parlare di emergenza non vuol dire cercare una giustificazione. Non significa trovare un alibi a misure tampone, a provvedimenti slegati e insufficienti, incapaci di arginare la violenza di genere. Oggi l’emergenza è reale e si annida dentro a una drammatica contingenza.
Le misure di distanziamento sociale – necessarie per contenere il virus e tradotte nei decreti del premier – espongono le donne a rischi incommensurabili. Molte case rifugio non accettano nuovi ingressi, a tutela delle ospiti che già vi sono ricoverate. La ministra Lamorgese e quella alle Pari opportunità hanno indirizzato in queste ore una circolare alle Prefetture. Bisogna far fronte alla necessità che si approntino nuove soluzioni di alloggio. Anche sul versante giudiziario c’è chi si pone il problema. Il capo della Procura di Trento ha emanato una direttiva perché sia il maltrattante ad essere allontanato in caso di abusi, e non la donna che spesso peraltro vive quell’incubo con dei figli minori al seguito. In Italia non ci sono linee guida, ma solo buone prassi; è questo forse il vero limite degli Uffici che amministrano la giustizia.
Ma la situazione in questo periodo di quarantena qual è? Ci sono le misure recenti – tra cui si può annoverare il Codice rosso, intervento legislativo che risale al luglio scorso – che hanno cercato di fronteggiare il fenomeno, ma quello tuttavia non accenna a flessioni di una qualche rilevanza. Il dato segnante in queste settimane è fondamentalmente uno: le donne rinchiuse in casa con i loro aguzzini non chiedono aiuto.
Loredana Mazza è la presidente del Centro Antiviolenza Galatea di Catania e appena la raggiungiamo al telefono ci conferma il trend. “Due sole richieste in questo mese e entrambe provenienti dalle Forze dell’Ordine. Abbiamo anche dato rifugio a una donna straniera, all’inizio della quarantena. Ma non chiamano, hanno paura”. Le operatrici catanesi restano operative h 24, seppure senza ricevimento fisico in sede. Specie nell’urgenza, le volontarie ci sono sempre.
Lorena viveva a Furci Siculo e proprio nel paesino di mare sulla costiera che unisce Messina alla città etnea c’è Al Tuo Fianco Onlus. L’avvocata Cettina La Torre che ne è presidente non si dà pace: “Proviamo in tutti i modi a raggiungere le donne, cerchiamo di fare capire loro che ci siamo e che devono imparare a riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi”. Ma questi giorni sono difficili, più difficili degli altri. “Abbiamo ricevuto due sole chiamate, nessuna presa in carico vera e propria, nessuna querela; abbiamo aiutato queste donne intanto allontanandole”. Quello di Lorena è un dramma senza proporzioni. La voce dell’avvocata è concitata, sembra ancora avere davanti agli occhi l’immagine della bara di legno chiaro che accoglie quella giovanissima vita, spezzata: “Era una ragazza che non si vedeva molto in giro, in paese; chissà com’era la sua vita, me lo chiedo dalla mattina della notizia. E so che oggi nessuno può più rispondere, solo lei sa com’era la sua vita. Non sappiamo che tipo di rapporto avesse con il fidanzato, ma quello che è certo è che quel legame non era un legame d’amore, non era un rapporto sano”. Rimane il dolore e la rabbia: “Ci siamo sentite di apporre un fiocco nero in segno di lutto sulla panchina rossa che avevamo fatto installare a Furci, alcuni mesi fa, in memoria delle vittime di femminicidio. Forte è il senso di impotenza, il fallimento di tutti noi”. Dello stesso tenore, la voce di Maria Grazia Giorgianni che è presidente del Centro Antiviolenza Pink Project a Capo d’Orlando, “Se facciamo un paragone, il calo delle richieste d’aiuto, rispetto al marzo dello scorso anno, è del 95%”.
Numeri ufficiali e spalmati su tutto il territorio nazionale può darceli la Commissione d’inchiesta al Senato che a febbraio ha visto prorogarsi fino a fine legislatura il termine per i propri lavori: scendono le denunce per maltrattamenti in famiglia, in modo drastico. I primi 22 giorni del mese di marzo del 2019 ne contavano 1.157; lo stesso periodo di osservazione quest’anno, ce ne consegna appena 652.
L’orrore diventa ancora più evidente, un mostro che balza agli occhi se solo consideriamo che a gennaio si sono registrate 5 vittime in 48 ore. La conta delle donne massacrate oggi fa 19 e siamo ancora al primo di aprile. “Un dramma senza scusanti: queste relazioni non sono relazioni d’amore”: alle vittime, la senatrice Valeria Valente – che della Commissione d’inchiesta sul femminicidio è presidente da fine gennaio dell’anno scorso – invita a chiedere aiuto, a contattare i centri antiviolenza anche usando l’app che è stata predisposta da pochissimo tempo, anche scrivendo un messaggio. Alle istituzioni domanda sostegno. E lo fa dapprima con un documento che il collegio ha varato nella seduta del 26 marzo e che ha cercato di spostare il focus giusto sull’emergenza, anche attraverso una lettera al Capo della polizia “per segnalare una serie di misure che le forze dell’ordine potrebbero porre in essere per contrastare la violenza domestica in questo periodo”. “L’isolamento e la convivenza forzata rischiano di aggravare la condizione di pericolo che molte donne vivono. Per questo chiediamo di pubblicizzare di più e in più lingue il numero 1522 con l’attivazione di sms e chat anche in inglese, francese, spagnolo e arabo, di assicurare ai centri antiviolenza, alle case rifugio, agli sportelli antitratta kit sanitari e disinfettanti, sanificazione, dotazioni tecnologiche e spazi di quarantena necessari per assistere madri e figli, di individuare ulteriori strutture per la residenza temporanea delle donne in pericolo, di assicurare il coordinamento tra le forze dell’ordine e i centri antiviolenza e misure per le donne immigrate. Chiediamo inoltre ed è importantissimo – aggiunge – di incentivare l’applicazione della misura dell’allontanamento urgente dalla casa famigliare (prevista dall’art. 384 del c.p.p.) dell’uomo maltrattante anche per i reati come le minacce e le lievi lesioni”.
E poi c’è l’attesa per il pacchetto dei sei provvedimenti che la Commissione ha prodotto per emendare il Cura Italia, atti firmati trasversalmente da Pd, Movimento 5 Stelle, Leu, FI, Lega, Iv e Autonomisti. Tra le proposte di emendamenti a quel decreto, spicca un dato: servono risorse, denaro. In questa direzione va la previsione di un fondo da 5 milioni di euro pensato per sostenere il percorso di fuoriuscita dalla violenza; un altro da 4 milioni, destinato a rinforzare la rete delle case rifugio e favorire l’emersione del fenomeno con la garanzia di un’adeguata protezione per le vittime. Non ultimo, quello che viene definito come «Fondo per la sostenibilità sociale» e che sposta la mira sulle attività di interesse generale, legate ai temi delle pari opportunità e del contrasto alla discriminazione.
La buona notizia è del 2 aprile e ci riporta a una procedura d’urgenza voluta dalla ministra Bonetti che ha sbloccato importanti risorse: 30 milioni di euro da fare arrivare alle Regioni, per contrastare violenza e abusi contro le donne, in questo momento così drammatico. Fondi che però, secondo le associazioni e i centri, non bastano proprio perché la violenza domestica è diventata un’emergenza nell’emergenza. Servono ulteriori risorse e la condizione perché gli interventi possano davvero dirsi efficaci, è che siano tempestivi, ora più che mai.