Una gran voglia di vivere. Potrebbe suonare strano, ma la prima caratteristica che viene da raccontare riferendosi alle donne siriane è proprio questa. Donne che, nonostante nove, interminabili anni di guerra, non si sono mai arrese alla logica della morte, della violenza e dell’orrore. Dentro la Siria, nelle zone dove sono ancora in corso bombardamenti e iniziative belliche, e fuori dalla Siria, nelle terre dell’esilio, le donne del martoriato paese mediorientale stanno dando una straordinaria prova di coraggio e resilienza. Lo fanno con semplicità, cercando di dare il meglio di se stesse anche nelle circostanze più avverse.
La guerra le ha private della loro quotidianità, dei comfort a cui erano abituate, esponendole a pericoli e costringendole a privazioni, paure e umiliazioni. Sono state costrette ad abbandonare le proprie case, hanno perso familiari e amici, sono rimaste senza lavoro, esposte ai pericoli e minacce, sono state esse stesse vittime e testimoni di abusi, ma non hanno mai perso la propria “karama”, dignità, né la propria “izza”, fierezza. Hanno alle spalle secoli di una storia dove la cultura, l’arte, le scienze, la facevano da padrona e dove la pacifica convivenza tra etnie e religioni diverse era un fiore all’occhiello per tutti. Forti di questa consapevolezza e innamorate della vita, le donne siriane hanno imparato a difendersi in guerra, non tanto dalle armi, contro le quali purtroppo non hanno scampo, ma dalla violenza psicologica di chi le vorrebbe mortificate e passive. Riuscire a dare il meglio di sé nelle circostanze più ostili richiede una gran forza d’animo e le donne siriane continuano a dimostrare di essere eroiche, seppur colpite da una tragedia immane.
Da poco insignita del Bafta Film Award a Londra e candidata al Premio Oscar per il miglior documentario, la ventinovenne regista siriana di “For Sama”, Waad al Kateab, è un esempio eccellente dello spirito reattivo e propositivo di questo popolo. Quando è iniziato il conflitto era una giovane studentessa universitaria, che si è unita al movimento di protesta nato nel campus di Aleppo per chiedere riforme, libertà e democrazia e per avviare un processo di cambiamento che portasse alla fine del regime che da quasi mezzo secolo tiene in pugno la Siria.
Di fronte alla violenta repressione e all’inizio della guerra, Waad ha deciso di prendere in mano una telecamera e raccontare cosa stava accadendo nella sua città, dando voce agli attivisti che chiedevano un cambiamento e al tempo stesso documentando la violenza che si è abbattuta sul popolo inerme. Quelle ore di riprese, fatte all’inizio in modo amatoriale, sono diventate documenti preziosi, prove degli orrori a cui venivano esposti i civili e delle violazioni delle convenzioni internazionali, con ospedali e scuole presi sistematicamente di mira.
Waad ha ripreso in ogni circostanza, sotto le bombe, durante l’assedio, ma anche nei momenti di vita privata, raccontando la sua storia di studentessa poi diventata anche moglie, madre e giornalista, che aveva bisogno di lasciare alla figlia, Sama appunto, una sorta di diario per immagini che le spiegasse che cosa era successo in quegli anni terribili. “For Sama” è un racconto intimo e allo stesso tempo corale, che porta nella Siria ferita dalle violenze. Da oltre due anni la giovane regista vive a Londra con la famiglia e grazie a questo suo documentario è diventata l’emblema delle sofferenze e del coraggio del popolo siriano.
Contemporaneamente, un altro film di un regista siriano ha vinto l’Oscar come miglior documentario. Si tratta di “The Cave”, diretto da Feras Fayyad e prodotto da National Geographic, che vede protagonista una straordinaria dottoressa di Ghouta, Amani Ballour, che allestisce un ospedale da campo all’interno di una grotta, lottando per salvare vite umane durante la guerra.
Amani, come Waad, decide di restare in Siria fino all’ultimo, quando è costretta ad andare in esilio, dedicando la sua esistenza agli altri, onorando il giuramento di Ippocrate in condizioni oltremodo ostili, senza adeguata strumentazione, con pochi colleghi al suo fianco e un numero di feriti, mutilati e malati in continua crescita. Amani è un medico pediatra laureata nel 2012 all’Università di Damasco e fa esperienza direttamente sul campo, in circostanze oltremodo disumane, mostrando un coraggio fuori dal comune. Oltre a cercare di vincere contro la morte, la giovane dottoressa deve lottare anche contro i pregiudizi e il maschilismo di chi, anche in circostanze di guerra, non abbandona una mentalità misogina e antiquata.
Le storie vere di queste giovani, grazie ai due documentari di denuncia, sono oggi note a un pubblico internazionale, che per la prima volta scopre la tenacia, il coraggio e la resilienza delle donne siriane. Insieme a loro ci sono centinaia tra scrittrici, fotografe, avvocatesse e attiviste che dalle terre della diaspora siriana stanno portando avanti un impegno lodevole, sia per denunciare i crimini di guerra avvenuti e ancora in corso nel Paese, sia per tenere vivo il dibattito culturale sulla Siria.
Il rischio è che troppo spesso, di fronte a una realtà di conflitto, ci si fermi a pensare solo al dovere dell’assistenzialismo e si trascuri, invece, l’importanza di dare voce alle iniziative culturali, legali e politiche di chi, seppur lontano dal suo Paese, si impegna per chiedere il rispetto dei diritti umani e la persecuzione dei responsabili dei crimini.
Secondo l’Onu quella siriana è la peggior crisi umanitaria dopo la fine della Secondo Guerra Mondiale: su 22 milioni di abitanti prima della guerra, oggi circa 6,5 milioni sono profughi nei Paesi limitrofi, ma anche in Europa e Canada, e altrettanti sono gli sfollati interni. Solo nell’ultimo mese 1 milione di persone circa ha dovuto abbandonare le proprie case, 5 strutture mediche sono state distrutte e quasi 200 civili hanno perso la vita. Sono numeri apocalittici, che mostrano che i civili siriani hanno un disperato bisogno di aiuto, ma come le due giovani donne denunciano, ai siriani ancor più del pane, mancano i diritti umani.
Questa lotta per i diritti vede le donne in prima fila e merita di essere sostenuta. Vengono in mente le parole pronunciate dall’avvocatessa siriana e fondatrice di Human Rights Information Link Razan Zaitouneh a dicembre 2011: “Sono passati otto mesi dall’inizio della nostra rivoluzione per la libertà e la giustizia. Sono state uccise 4500 persone dal regime siriano e migliaia sono state arrestate o sono sparite nel nulla. Molti si chiedono perché i siriani stiano sacrificando le proprie vite (…) Per la prima volta dopo decenni, scopriamo le nostre voci e le nostre personalità e come ci si sente quando si abbattono i muri della paura e ci si impegna per le proprie idee”.
Razan, e l’equipe formata da Samira al Khalil e ad altri due colleghi, che ha fondato anche il Violation Documentation Center, è stata rapita a Douma nel 2013. Da allora non si hanno più notizie di loro. Quella presa di coscienza di essere un popolo che ha una volontà, di poter lottare per la libertà e i diritti umani, deve suggerirci la chiave con cui guardare alle donne e agli uomini siriani. Non con il pietismo che una tragedia che ha causato oltre mezzo milione di vittime e la distruzione di un Paese suscita naturalmente, ma con il rispetto e la considerazione verso un popolo fiero, acculturato, dignitoso, che nonostante tutte le sue sofferenze continua a rivendicare diritti umani.