C’è un dato che fotografa plasticamente che cos’è oggi la violenza contro le donne in Italia. Dalle analisi ISTAT sappiamo che una donna su tre è vittima di violenza nell’arco della propria vita, ma di queste solo una donna su dieci denuncia la violenza subita. Davanti a questo fenomeno, ancora in grandissima parte sommerso e sconosciuto, per quanto in evoluzione anche grazie ai numerosi interventi normativi di questi anni, abbiamo il compito non facile di definire politiche pubbliche adeguate a combatterlo.
Le principali direzioni da seguire restano quelle individuate nella Convenzione di Istanbul, in particolare prevenzione e protezione delle vittime, oltre all’attività repressiva nei confronti dei colpevoli. La vera difficoltà, di cui tutti dobbiamo essere consapevoli, è tenere insieme questi aspetti. Lo possiamo fare costruendo una risposta complessa, che parta dalla consapevolezza che pene più severe già ci sono e purtroppo non sono sufficienti, che non basta gridare all’emergenza a favore di telecamere, ma è indispensabile invece abbattere, attraverso educazione, conoscenza e formazione, stereotipi e pregiudizi radicati e ancora troppo diffusi nella nostra società.
Questi sono i veri ostacoli che impediscono alle donne di affermare compiutamente diritti, libertà, autonomia. In casa, in famiglia, a scuola e all’università, sul luogo di lavoro. Questa battaglia non riguarda soltanto gli episodi di violenza, le molestie o i maltrattamenti. È sufficiente osservare la diffusa e alta disparità salariale tra lavoratrici e lavoratori, o la grande disuguaglianza di partecipazione delle donne italiane alle forze di lavoro, o ancora la rigidità dei ruoli domestici nelle nostre famiglie da cui deriva un lavoro di cura ancora troppo poco condiviso.
Tutti questi sono tasselli diversi di un’unica fondamentale battaglia, che si gioca principalmente sul piano culturale e politico contro i divari e le disuguaglianze delle donne. Da questo punto di vista, la violenza è soltanto la punta dell’iceberg. Resta però che ogni sua forma, dalla più grave a quella più velata, accade perché il terreno culturale retrostante è fertile, conservando e proponendo un’immagine della donna stereotipata, fonte di squilibri e discriminazioni insopportabili.
C’è un tema che, per la sua diffusione e gravità, merita particolare attenzione. La Commissione di inchiesta sul femminicidio del Senato se ne sta occupando da tempo e sono felice di poterne parlare facendo i miei auguri a Alley Oop, in questo felice quarto anniversario. Si tratta della cosiddetta vittimizzazione secondaria, a cui sono sottoposte molte donne che decidono di denunciare le violenze subite. È un rischio ancora troppo spesso sottovalutato, anche da parte di quelle istituzioni che invece dovrebbero garantire una protezione rapida e attenta delle vittime.
Particolarmente odioso è il pericolo che colpisce le donne, madri con bambini piccoli, costrette a subire ritorsioni dall’ex partner all’inizio o durante la separazione, e spesso dopo che i mariti o compagni si erano già rivelati maltrattanti all’epoca della convivenza o del matrimonio. Queste donne rischiano nei tribunali di trovarsi imputate di cattiva genitorialità perché non garantiscono l’accesso del padre ai figli.
Si tratta di un tema che non va banalizzato, complesso e articolato. Ma donne che hanno denunciato i maltrattamenti, e che poi hanno scelto la strada della separazione, dando prova di un passaggio di consapevolezza, non possono trovarsi trasformate da vittime in presunte carnefici della relazione tra padre e figlio. Ecco perché anche le istituzioni, da quelle politiche e parlamentari a quelle giudiziarie e sanitarie, devono tutte fare un salto di qualità nell’affrontare questo fenomeno.
In primo luogo, per capire dove e come sorge il pericolo di sottovalutazione, di indifferenza, di incomprensione di un fenomeno che è oggettivamente difficile da interpretare correttamente, soprattutto nelle fasi iniziali. Individuare per tempo i comportamenti dietro ai quali può nascondersi la violenza; evitare che stereotipi di varia natura entrino nell’aula giudiziaria, ad esempio attraverso testimonianze ritenute poco affidabili o forme di pressione sui soggetti esaminati oppure tramite consulenze tecniche ingiustificabili scientificamente; e ancora, motivare in modo approfondito e rigoroso le ragioni di una sentenza o una decisione.
Questi che ho citato sono tutti snodi decisivi di un percorso tipico nelle nostre aule di giustizia che coinvolge donne che hanno subito minacce, aggressioni, maltrattamenti e che, se non attentamente condotto, può produrre forme di vittimizzazione inaccettabili. La magistratura, le forze dell’ordine, gli assistenti sociali che operano nel nostro Paese possiedono tutte le risorse per scongiurare rischi di questo genere. Non devono però essere lasciati soli; devono poter disporre di strumenti normativi aggiornati e risorse pienamente adeguate.
Per quanto riguarda i primi, un solo esempio: il raccordo tra giurisdizione penale, civile e minorile, quando ci sono competenze concorrenti rispetto al medesimo nucleo familiare, è un punto nevralgico per misurare l’efficacia della risposta alla violenza di genere. Perciò, la recente (Codice rosso) introduzione dell’obbligo di trasmissione al giudice civile degli atti più importanti del procedimento penale in corso è una novità positiva, che andrà monitorata con attenzione.
In proposito, come Commissione d’inchiesta, abbiamo chiesto al Ministro della Giustizia Bonafede di tenere sotto controllo semestralmente gli effetti di quella norma, come anche del nuovo obbligo dei “tre giorni”, che aveva suscitato non poche perplessità per la capacità delle procure di reggerne l’impatto effettivo.
Invece, sul tema delle risorse, non basta scrivere leggi in cui si rende obbligatoria la specializzazione e la formazione degli operatori. Serve poi mettere a disposizione le risorse necessarie per quella formazione. Perciò, per passare ai fatti, nell’ultima legge di bilancio abbiamo aggiunto 4 milioni di euro al Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere.
Su questi, come su molti altri temi, l’impegno della Commissione di inchiesta sul femminicidio e sulla violenza di genere è massimo e continuerà ad esserlo, mi auguro, nei prossimi mesi e nei prossimi anni. La violenza ha sempre le sue radici in una cultura fortemente stereotipata, ancorata a modelli familiari di stampo patriarcale e insieme in una mancata ed effettiva parità tra i generi. Combattere questo impianto richiede tempo e un impegno convinto.