A che punto siamo sulla leadership femminile?

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Quanto sei a tuo agio con una donna leader, rispetto a un uomo? Ruota attorno a questa domanda specifica e diretta il Reykjavik Index for Leadership del Reykjavik Global Forum, iniziativa nata nel 2017 e protagonista di un panel del programma odierno / del 23 gennaio del Word Economic Forum a Davos.

Osservati particolari del rapporto 2019, sono le maggiori economie globali, i Paesi del G7 più Brasile, Russia, India e Cina, studiati entro 22 settori economici: dall’automotive all’industria dell’intrattenimento, dalla partecipazione politica alla moda e al tech. In cima alla lista di questa seconda edizione si posiziona il Canada (con un punteggio di 77) affiancato dalla Francia. Seguono poi Stati Uniti (75) e Regno Unito (73). L’Italia (con punteggio generale di 68) è ultima tra i membri del G7, al di sopra della media generale dei paesi considerati (61), ma distaccata di 9 punti dalle prime.

Alla base del lavoro del Forum c’è una presa di posizione chiara: “Crediamo in un mondo dove donne e uomini hanno pari diritti e opportunità, non solo (in termini) di partecipazione, ma anche di guida”. Una specie di dichiarazione di interessi a fronte della non troppo sorprendente evidenza che – dati alla mano – in tutti i Paesi e in tutti gli ambiti analizzati, le donne sono percepite meno adatte a occupare una posizione di leadership.

A prescindere da quanto sia elevato il pay gap o dal numero di donne membri dei cda, l’impressione generale è (resta?) condizionata da una combinazione di credenze, pregiudizi e stereotipi persistenti. E nonostante sia forse ancora troppo presto per affermarlo con la certezza dei numeri, alcuni risultati più equilibrati sarebbero condizionati anche da una maggiore visibilità delle donne in posti di comando, come succede per esempio nel settore dei media e intrattenimento. Allo stesso modo, una percezione paritaria che prescinda dal genere, sarebbe influenzata da quanto il tema venga dibattuto.

Viene alla mente l’Italia e la discussione continua sulla legge che introduce quote di genere nei cda delle società quotate e partecipate, recentemente prorogata per altri tre mandati, capace di stimolare azioni positive anche in aziende non direttamente interessate dalla norma. E infine, avrebbe un impatto importante anche proprio la presenza di role model femminili di alto profilo in ruoli rilevanti e in settori tipicamente maschili, per esempio quello della difesa.

Leggere risultati e riflessioni delle risposte dei 22mila intervistati, conferma convinzioni e dati su cui si lavora da anni in ambito di pari opportunità, ma registra anche risultati inaspettati, come il caso della Germania, che pure avendo da anni una donna a guida del governo, conosce un calo delle presenze femminili nel Budestag (da 36 a 30%) o il Canada dove, seppure il primo ministro si spenda molto in questioni di parità, ancora donne leader faticano ad affermarsi e rappresentano solo 14% nei cda delle società quotate.

Una nota positiva riguarda un miglioramento generale registrato già nel giro di un anno e in particolare il picco dell’Italia: pur restando nelle retrovie, è la nazione che dalla prima rilevazione ha conosciuto il passo in avanti più grande (5 punti). Ma c’è ancora strada da fare perché appartenere a un genere o all’altro smetta di essere un tema e la situazione cambi in modo deciso, soprattutto in settori cruciali per il futuro della società, come la partecipazione alla gestione pubblica – per stare ai numeri – in nessuno dei parlamenti nazionali dei Paesi analizzati è bilanciata la presenza tra i due sessi e il WEF stima che nel mondo solo un seggio su quattro è occupato da una donna.

Insomma, resta lontano il momento in cui il caso della finlandese Sanna Marin o della nuova presidente greca Katerina Sakellaropoulou siano argomento di cui scrivere sui giornali perché sono dei record e “prime volte”, ma diventino invece solo la notizia di dell’alternarsi di leader, a prescindere dal sesso di appartenenza.