E’ uscito qualche giorno fa “Women in the Workplace 2019”, il quinto Rapporto sull’occupazione femminile curato da McKinsey e Lean In, l’organizzazione fondata da Sheryl Sandberg (direttrice operativa di Facebook) “per aiutare le donne a raggiungere ciò a cui ambiscono e per creare un mondo di pari opportunità”.
La ricerca prende in esame un campione di 68.500 dipendenti di 329 grandi aziende (che impiegano complessivamente 13 milioni di individui), ed evidenzia il permanere di una marcata sottorappresentazione femminile ai vertici della scala gerarchica. Il Rapporto individua nella selezione al primo gradino del percorso di carriera “il più grande ostacolo che le donne devono affrontare sulla strada della leadership”, e afferma che solo aggiustando questo “gradino rotto” si potrà raggiungere la parità ai livelli più elevati.
Il primo paragrafo dello studio è intitolato “The State of the Pipeline”, cioè lo stato della “conduttura”[1], e descrive la situazione rappresentata nella Figura 1. Donne e uomini sono più o meno in parità al primo livello di inquadramento, dove la percentuale femminile sul totale dei dipendenti è pari al 48%, ma fin dal primo gradino del percorso di leadership la quota femminile si riduce di ben dieci punti percentuali (38%), e il “tubo” continua a perdere quote rosa fino a toccare il minimo del 21% nelle posizioni di vertice, contro il 79% della componente maschile.
Figura 1 – Tasso di femminilizzazione (F/MF%) dell’occupazione dipendente nelle grandi aziende per livello gerarchico.
Fonte: ns. el. su dati “Women in the Workplace 2019”
L’importanza del primo gradino è stata rimarcata anche dalla ricerca “Life and leadership after HBS”, pubblicata nel 2014 dalla Harvard Business Review. Infatti, anche tra le neolaureate di Harvard, che hanno pari talento e ambizioni di carriera non minori di quelle dei loro colleghi, solo il 41% è abbinato a posizioni dirigenziali, contro il 57% dei neolaureati di genere maschile. La ricerca si conclude con l’affermazione seguente: “le analisi condotte in questo rapporto sorprendentemente hanno mostrato che né le ambizioni di carriera né il lavoro a tempo parziale, né l’uso di strumenti di conciliazione spiegano la minor probabilità delle laureate di essere top manager”.
Cosa, allora?
Un articolo appena pubblicato sull’American Economic Review, intitolato “Beliefs about Gender”, presenta una rassegna delle più recenti ricerche economiche in tema di stereotipi di genere e conferma che gli errori di valutazione che derivano da questi pregiudizi hanno rilevanza nel determinare sia le minori probabilità di assunzione, sia le minori retribuzioni e le minori probabilità di promozione del genere femminile (Bordalo et al. 2019).
Il condizionamento degli stereotipi si manifesta sia dal lato dell’offerta (effetti degli stereotipi su di sé) sia dal lato della domanda (effetti degli stereotipi altrui). Nel primo caso, gli errori di autovalutazione della componente femminile sono evidenziati dalla letteratura sull’assertività, sull’autostima, sull’avversione al rischio e sulla scarsa propensione a competere nei tornei (Blau e Kahn 2016). Questa letteratura sottolinea le differenze di produttività tra uomini e donne determinate da differenti preferenze genuine e/o indotte dal condizionamento degli stereotipi, ma una letteratura altrettanto consistente mette in luce le conseguenze degli stereotipi dal lato della domanda, e conferma in modo sistematico che la stessa caratteristica produttiva viene retribuita mediamente di meno, o dà luogo ad una minor probabilità di assunzione e promozione, quando chi la possiede è di genere femminile.
Ad esempio, la meta-analisi di Eagly et al. (1995) dimostra che l’assertività è una caratteristica premiante per la retribuzione e per la carriera del genere maschile, ma risulta penalizzante per la componente femminile. Similmente, la letteratura che indaga le cause che determinano il successo di un progetto (Deaux ed Emerswiller 1974; Castilla e Bernard 2010) è convergente nel mostrare che il successo maschile è più spesso attribuito a talento o competenza, mentre quello femminile è più spesso attribuito all’impegno, alla facilità del compito da svolgere o alla fortuna. Si noti che, anche in questo caso, è la stessa prestazione che viene valutata in modo diverso a seconda del genere di chi la realizza.
Considerando più specificamente gli errori di valutazione nelle assunzioni, Isaac et al. (2009) sintetizzano i risultati di trent’anni di ricerche sperimentali nelle quali lo stesso curriculum è presentato alternativamente con un nome maschile o con un nome femminile. I risultati mostrano che i valutatori di entrambi i generi classificano le donne come meno competenti e meno meritevoli, e offrono loro retribuzioni minori rispetto a quelle offerte agli uomini. Questo risultato è confermato anche nella recente rassegna di Azmat e Petrongolo (2014), che ribadisce il permanere di una significativa discriminazione contro le donne sia nelle professioni di più alto livello sia in quelle considerate maschili nello stereotipo[2].
Poiché questi errori di valutazione e di autovalutazione sono generalmente inconsapevoli a livello individuale, e sono la causa che impedisce alle donne di fare il primo passo del percorso di carriera, la metafora solitamente usata per rappresentare questa situazione è denominata “porta di cristallo” (Hassink and Russo 2010), ad indicare la presenza di un ostacolo invisibile che impedisce alle donne l’accesso alle posizioni di leadership; a questa prima difficoltà si sommano progressivamente gli effetti degli errori di valutazione che ostacolano la progressione di carriera, che sono generalmente rappresentati con la più nota metafora del “soffitto di cristallo”. [3]
Prof, ma cosa cambia? Porta o soffitto resta sempre che le donne non fanno carriera …
Sì, l’effetto è lo stesso: in entrambi i casi le donne arrivano alle posizioni apicali con minor frequenza dei loro colleghi, ma a percorsi diversi corrispondono cause diverse, e quindi politiche diverse per rimuovere gli ostacoli alla parità. Se la scarsa presenza femminile ai vertici è la conseguenza di un reclutamento dall’esterno, invece che del sistema di promozioni interno, come si osserva ad esempio nella ricerca di Fernandez e Campero (2016)[4], le politiche più efficaci non sono quelle aziendali ma quelle che agiscono sull’intero mercato del lavoro.
[1] – La struttura delle organizzazioni gerarchiche è stata spesso metaforicamente rappresentata come un “tubo” che perde parte della componente femminile ad ogni giuntura, cioè ad ogni passaggio del percorso di carriera.
[2] – D’altro canto, i dati provano l’esistenza un analogo trattamento riservato agli uomini nelle professioni considerate più adatte al genere femminile, evidenziando così un legame diretto tra la discriminazione e la segregazione occupazionale (Bordalo et al. 2016).
[3] Hymowitz, C. and Schelhardt, T.D. (1986) The Glass-Ceiling: Why Women Can’t Seem to Break the Invisible Barrier that Blocks Them from Top Jobs. The Wall Street Journal, 57, D1, D4-D5.
[4] – Fernandez e Campero, analizzando i dati di 441 piccole e medie imprese ad alta tecnologia, trovano che le distorsioni esterne sono prevalenti su quelle interne nel determinare la sottorappresentazione femminile ai vertici.