“Oggi a scuola ho scambiato la mia merenda con quella di Abul. La nonna gli ha fatto un panino con una frittata un po’ dolce un po’ salata buonissima”. E io ho pensato a quel delizioso panino con il prosciutto caldo in crosta di pane tanto caro alla tradizione triestina che mio marito aveva preparato la mattina, che era stato scambiato con una strana frittata. Secondo i dati ISTAT, Abul è uno dei 1.041.177 under 18 con genitori di origine immigrata (su un totale di popolazione minorile di 9.806.357 ragazzi, uno su dieci) che siede sui banchi della scuola italiana. Una scuola che, sempre più spesso, è chiamata in prima linea a farsi carico dell’integrazione di queste giovani, impreparate, nuove generazioni.
Nell’ultimo documento di studio realizzato dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza “L’inclusione e la partecipazione delle nuove generazioni di origine immigrata. Focus sulla condizione femminile” si parte proprio dalla scuola e dall’analisi, attraverso le voci dei ragazzi, del benessere – ma molto spesso malessere – vissuto tra le mura scolastiche per arrivare alla considerazione che “servono operatori più preparati, a cominciare dalla scuola. Ma anche il linguaggio e le narrazioni che li riguardano hanno bisogno di una revisione. Servono più mediatori linguistici e culturali”.
La scuola troppo spesso però è chiamata in prima linea, ma lasciata sola in questo compito di integrazione culturale. Noi genitori dobbiamo prendere coscienza che prima ancora che a scuola, l’integrazione passa tra le mura domestiche perché i primi mediatori culturali siamo proprio noi. Ognuno di noi è portatore di una grande responsabilità alla quale ormai non possiamo più sottrarci: essere i mediatori culturali di noi stessi. Una sfida che abbiamo il dovere di cogliere.
Ore 15.00 di un sabato pomeriggio. Ricerca di geografia sul Piemonte e Lombardia. Matteo e due compagni di classe nati all’estero cui spiegare come raccontare e descrivere la nebbia, le zanzare, il risotto allo zafferano ma anche “quel ramo del lago di Como”. Un’impresa decisamente difficile. Guardavo quei tre ragazzini così diversi e pensavo al mio primo pen friend con il quale la mia professoressa di francese mi aveva messo in contatto per poter migliorare la lingua e conoscere una nuova cultura. È ancora vivo il ricordo dell’entusiasmo nell’aprire le lettere che sapevano e mi raccontavano del “diverso”. Avviene sicuramente in questo delicato periodo scolastico il momento in cui si formano le coscienze delle generazioni future. La loro capacità di tolleranza e di apertura mentale. Ed è attraverso i giovani e i giovanissimi che si crea una società multiculturale a basso livello di conflittualità. Loro rappresentano quel ponte culturale cui molto spesso gli stessi genitori sono impreparati.
Secondo gli ultimi dati Istat dal 1993 al 2014 sono nati in Italia quasi 971 mila bambini da genitori stranieri, con una tendenza alla crescita che però sta diminuendo. Fino a qualche anno fa, la maggioranza di questi bambini e ragazzi era nata all’estero, oggi invece la grande maggioranza è nata in Italia: oltre 7 su 10. Nell’anno accademico 2017-2018 risultano immatricolati nelle università italiane quasi 8.000 studenti di nazionalità straniera che hanno conseguito il diploma di scuola superiore in Italia, senza contare quanti hanno acquisito la cittadinanza italiana e i figli di coppie miste. Sono numeri che rappresentano persone che, spesso, non sappiamo neanche come raccontare: stranieri? Seconde generazioni? Immigrati? Italiani?
Secondo lo studio realizzato dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza la letteratura, soprattutto in Europa, è emerso che molti di loro subiranno gli effetti discriminatori delle tre A: apparenza (quando l’aspetto fisico immediatamente rivela la provenienza da Paesi extraeuropei); accento (quando la lingua corrente è parlata con un’inflessione che denota ugualmente una storia d’immigrazione); ascendenza (quando il cognome designa origini lontane). Secondo le ricerche condotte dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) di Ginevra, più volte ripetute in diversi Paesi, già solo firmarsi con un cognome “immigrato” in fondo a un curriculum, a una domanda di lavoro, a una richiesta di ammissione a uno stage, a parità di altre condizioni (età, genere, istruzione ecc.) provoca un più alto tasso di risposte negative rispetto ad analoghe istanze firmate con un cognome di chiara origine nazionale.
Questi sono numeri e situazioni che noi adulti, soprattutto genitori, dovremmo accettare come sfida quotidiana.
La ricerca di geografia? Terminata con successo alle 19.00 quando tutti e tre i bambini hanno intonato “O mia bela Madunina” e una domanda dall’amico rumeno: ma non si dice bella con due elle?