“Il fatto che oggi non prenda più botte, non significa che non sia maltrattata. Ci sono le continue minacce, come quella più dura, più frequente, di portarmi via i nostri figli. I maltrattamenti del proprio compagno sono come un gioco di specchi, tra paura, sensi di colpa, vergogna, speranze. E le stesse cose, gli stessi meccanismi, li sto affrontando ancora adesso con le istituzioni». Non finisce di lottare, Arianna. Ha denunciato per la prima volta quello che allora era suo marito ormai quasi 10 anni fa, pensava così di mettere in sicurezza se stessa e i suoi bambini. Si è separata, ha divorziato. Ha lottato perché i suoi figli non dovessero subire la violenza del padre. «Ma ad oggi – dice con amarezza ma senza rassegnazione – mi sento ancora incastrata in una situazione in cui è lui che orchestra e decide tutto. Sono ancora oggi in balia di quell’uomo, in ostaggio, con il rischio concreto che mi porti via i bambini, da un momento all’altro».
Quella di Arianna è una storia che colpisce: una storia di maltrattamenti subiti in casa, da part del proprio marito. Di una donna che, a fatica, come sempre in questi casi, reagisce e denuncia per salvare se stessa e i suoi figli. Che ottiene una condanna per il suo aggressore, in primo grado, senza ombre e senza dubbi. Una sentenza penale che, però, non conta sul fronte civile: nella separazione e nel divorzio non conta il giudizio penale, la strada del procedimento civile viaggia su un sentiero separato. E così Arianna ha visto i suoi figli affidati ai servizi sociali prima, poi con l’affido congiunto, poi ancora ai servizi sociali. Senza che la violenza che ha subito e contro la quale si è ribellata abbia un peso in tutto questo. Non solo. In sede d’Appello la sentenza viene completamente ribaltata: anni di maltrattamenti si riducono al reato di percosse, a una multa. Un altro schiaffo, che lascia il segno. «Ho denunciato non per punire, ma per salvarmi. Per salvare me e i miei due bambini. Da allora invece di sentirmi più protetta sento che devo lottare sempre di più, ogni giorno».
Arianna, il nome è ovviamente di fantasia, è una donna forte, indipendente, con un lavoro che la porta a viaggiare molto. Incontra un uomo, si innamora, «il classico colpo di fulmine», dice. Lui è affascinante, con una brillante carriera davanti a sé, una professione che gli permette di vantare conoscenze agganci, in un ruolo di potere. Si sposano dopo pochi mesi. In quella prima fase, di idillio, ci sono già un paio di episodi preoccupanti. Reazioni improvvise, violente e imprevedibili di lui, anche in mezzo alla strada, davanti a testimoni, per questioni futili. Arianna tentenna, in quelle situazioni non lo riconosce, ha dei dubbi. Ma poi mette a posto le cose, tende a vedere quelli come episodi isolati, poco importanti. «Dopo i primi episodi – racconta – le sue scuse erano infinite, mi faceva quasi tenerezza tanto era dispiaciuto. All’inizio poi erano casi sporadici, diradati nel tempo, che tendevo a rimuovere». Dopo pochi mesi dall’inizio della relazione l’uomo viene trasferito all’estero: Arianna lascia tutto, il suo paese, il lavoro, la famiglia di origine, gli amici e lo segue. La situazione peggiora rapidamente: lei resta incinta, è sola in un Paese che non conosce ed è bisognosa. Lui è il suo unico punto di riferimento. Più lei lo cerca, richiede la sua presenza, più lui la respinge, diventa insofferente e sempre più spesso violento.
Con la nascita dei bambini, due gemelli, la situazione precipita: «Erano botte tutti i giorni. Se mettevo davanti le esigenze dei bambini, rispetto alle sue, scatenavo la sua furia», racconta Arianna con voce ferma. «La mia debolezza di quel momento significava che meritavo il suo disprezzo, meritavo di essere umiliata». Solo dopo qualche mese, con gran fatica, Arianna trova la forza di andarsene, torna in Italia e lì si rivolge a un centro antiviolenza. «Nel mio percorso con il centro ho tolto unicità alla mia storia. Ho capito che ero dentro a un esempio da manuale, a una classica storia di maltrattamenti. Le operatrici predicevano ciò che il mio ex marito avrebbe fatto, loro lo sapevano già. E puntualmente le cose andavano in quel modo. Solo lì ho capito che quello era un modus operandi, solo lì ho preso le distanze da quella che pensavo fosse una storia d’amore unica. Solo lì sono riuscita a denunciare».
Da quella prima denuncia sono passati molti anni, i bambini sono cresciuti, ma l’incubo non è finito. A quella denuncia ne sono seguite altre. La sensazione di essere sotto attacco, di doversi difendere, di non essere al sicuro, in questi anni non è passata. Il suo aggressore non ha mai ammesso le sue colpe, nonostante in giudizio siano state presentate prove pesanti. Anzi, è sempre passato al contrattacco violento, anche dal punto di vista legale. Ha ammesso di aver reagito, ma solo una volta, con uno schiaffo, e perché provocato da lei. In primo grado il giudizio penale è stato netto: l’uomo è stato condannato a diversi anni di reclusione, oltre al risarcimento dei danni. Sul piano civile però le cose prendono un’altra direzione: Arianna ha scelto la separazione consensuale pensando di facilitare così il percorso di allontanamento dal marito, ma così non è stato. Il marito l’ha accusata di alienazione parentale, i figli sono stati affidati ai servizi sociali che in più riprese hanno mandato il messaggio di non volersi né potersi occupare dell’aspetto dei maltrattamenti: «Mi hanno detto che il loro compito era quello di assicurare la relazione tra il papà e i bambini», dice Arianna con un sorriso amaro.
Dopo il giudizio di condanna di primo grado nel processo penale, le cose non migliorano: il riconoscere i maltrattamenti porta alla conclusione che la donna non può «garantire un adeguato accesso alla genitorialità». Un altro schiaffo per Arianna che, oltre a essere vittima di violenza, si trova a dover lottare per poter fare da madre ai suoi figli. In quel periodo, i bambini riferiscono gli insulti del padre nei confronti della loro madre, soffrono la situazione e mostrano ovvi segni di disagio, mentre Arianna si sente dire che quello con il suo ex marito è un «rapporto conflittuale» e che «i conflitti andrebbero sedati», con un tono paternalistico che certo non si addice a una storia di maltrattamenti. A questo punto arriva però un’altra doccia fredda, la peggiore: l’uomo, nonostante le richieste della procura, viene assolto in appello dal reato di maltrattamenti nel giudizio penale e condannato per il ben più lieve reato di percosse: se la cava con una multa da qualche centinaio di euro e pena sospesa. Di fatto, tutte le violenze pregresse, subite e non denunciate, non sono state considerate nel secondo grado di giudizio. «Non è stato minimamente preso in considerazione il fatto che il desiderio di denuncia non è immediato. Arrivare a denunciare quello che si crede essere il compagno della propria vita è un percorso, a volte lungo. Qual è la donna che denuncia al primo schiaffo?», si chiede Arianna.
Arianna oggi continua a combattere, la sua battaglia, infatti, non è finita: «Ho scoperto risorse interiori che non sapevo neanche di avere, questo è sicuramente l’insegnamento che posso trarre da tutto questo», dice. La sua è la storia di una donna che ha reagito, che non ha voluto subire, ma che non ha trovato sempre quell’ascolto, quella comprensione, quella competenza e quella conoscenza dei meccanismi della violenza proprio in chi era chiamato a proteggerla. «Mi ritrovo ad avere ancora paura, anche oggi. Certo, non temo più così tanto l’aggressione fisica, ma mi ritrovo comunque costretta a subire. Spero ancora che la giustizia faccia il suo corso, che sia la verità alla fine a venire fuori. Lo spero per me, per i miei figli, perché altre donne non subiscano quello che ho subito io, perché riescano a proteggersi prima e meglio di me».
*** Il brano è tratto dall’ebook #hodettono pubblicato lo scorso 8 marzo con Il Sole 24 Ore. La presentazione dell’ebook si terrà il prossimo 13 maggio ore 18.00 presso la sede del Sole 24 Ore a Milano.