Trattiamo il lavoro come una religione: ma è un dio buono oppure cattivo?

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Si  può lavorare e si lavora sempre meno. Secondo l’ultimo report dell’OCSE (dati relativi al 2016), in Italia lavoriamo in media 33 ore a settimana, per un totale di 1.730 ore l’anno. Questo ci mette al 20° posto nella classifica OCSE per ore lavorate: nelle prime due posizioni, rompono secoli di stereotipi il Messico e il Costarica, mentre è più prevedibile il terzo posto della Corea del Sud. Quasi tutta l’Europa dell’Est e una parte dell’Europa meridionale fatica più dell’Italia, che comunque sembra guidare il gruppo del centro e nord.

La possibilità di lavorare meno sembra però non interessare ai laureati con reddito alto, secondo quanto rivelano recenti report che arrivano dagli Stati Uniti e che non facciamo fatica ad applicare anche alla classe dirigente italiana. Soprattutto, non è difficile ritrovare nella cultura della nostra élite economica lo stesso senso “religioso” attribuito al lavoro di cui parla un recente articolo dell’Atlantic.

Sia l’economista John Maynard Keynes negli anni ‘30 che lo scrittore Erik Barnouw  nel 1957 avevano predetto che, a mano a mano che la tecnologia avesse reso il lavoro più semplice, avremmo lavorato sempre meno e avremmo avuto modo di definirci sempre di più attraverso altre dimensioni identitarie, come gli hobby e la famiglia. A quanto pare invece, pur essendo ormai decisamente nel ventunesimo secolo, il lavoro continua non solo a darci ciò che abbiamo, ma anche, e sempre di più, a dirci chi siamo.

Per questo fenomeno, il giornalista dell’Atlantic conia un termine: workism, la “religione del lavoro”, che in italiano potremmo tradurre con “il lavoresimo”.

Il lavoresimo è il vangelo in cui crediamo quando facciamo del lavoro il luogo dove esprimiamo il meglio di noi stessi, quello dove cerchiamo un senso anche per tutto il resto.

Suona familiare?
Il problema di questa religione particolare è che, a differenza delle altre divinità, il lavoro si fa “vedere” molto bene e dà chiari segnali di ritorno, che spesso dipendono dall’andamento del mercato. Professare quindi una fede nella carriera mette i fedeli nelle mani di mercati e aziende fin troppo attivi nel dare o negare miracoli. Eppure qui stiamo: secondo l’articolo dell’Atlantic soprattutto gli uomini – per le donne, come al solito, ci sarebbe da scrivere tutta un’altra storia – a considerare la nostra professione come il luogo di maggiore espressione dei nostri talenti e a considerare il curriculum come luogo di senso sopra a ogni altro, tanto che nessuno si ferma mai a domandarsi se altre dimensioni – come la famiglia o gli interessi personali – meriterebbero lo stesso investimento di energie, la stessa attenzione, la stessa cura.

Il lavoro è sacro… “ma non è tutto”, ha detto papa Francesco in un’omelia di qualche anno fa. Anzi: “Quando il lavoro (…) è in ostaggio della logica del solo profitto e disprezza gli affetti della vita, l’avvilimento dell’anima, contamina tutto: anche l’aria, l’acqua, l’erba, il cibo…”. Ma il lavoresimo non è un fenomeno legato al profitto: sembra esserci di più. La logica che c’è dietro, scrive il giornalista dell’Atlantic, potrebbe non essere economica ma emotiva, o addirittura spirituale.

Ma è anche la normale conseguenza di un percorso educativo che inizia a mostrarci la carriera come un obiettivo di realizzazione sin dalle elementari. Formiamo i nostri figli come macchine produttive – input di informazioni che si risolvono in output di risultati – in un percorso educativo in cui la parte di ricreazione e di espressione di sè – marginale sin dall’inizio – si restringe sempre più a mano a mano che si diventa grandi e le cose si fanno sempre più “serie”. La ricreazione non è un elemento prioritario della vita, e sempre meno lo è anche la famiglia: appare evidente dalle norme implicite ed esplicite che ci governano, dai tempi di vita e di lavoro, dai contenuti dei media e dei dibattiti. Il lavoro è sempre il tema più “interessante”.

C’è poi un ulteriore fattore che potrebbe giocare un ruolo importante in questo monoteismo ossessivo, che non fa che crescere al crescere del reddito – e quindi al diminuire del bisogno reale. Ed è la fatica percepita nell’avere molti ruoli. Intanto perché il ruolo lavorativo sembra avere regole chiare (il vangelo di cui sopra): ad un determinato input fa corrispondere un output abbastanza prevedibile, e quindi mentre limita protegge – altrettanto non si può dire di dimensioni come quella familiare, molto meno netta e prevedibile nelle richieste come nelle ricompense. Ma anche perché spostarsi tra i molti ruoli, adattarvi le proprie competenze, essere flessibili nel riconoscervi dinamiche diverse e saperle “giocare”, richiede una trasversalità che è all’opposto dell’iper specializzazione che fino a oggi ha definito che cosa è il successo (almeno nel mondo del lavoro). Detta in termini sportivi: a quanti giochi occorre saper giocare, e perché poi dovremmo sforzarci di saperlo fare, se saper tirare calci a un pallone meglio di tutti gli altri è bastato fino ad oggi?