Il teatro non è solo intrattenimento. Può anche assolvere a una funzione educativa. Può usare la narrazione di storie per aprire finestre su mondi che altrimenti non andremmo ad esplorare. Può essere un contenitore di informazioni da approfondire e lezioni da apprendere. Il Teatro dell’Elfo, punto di riferimento non solo per il territorio milanese, quest’anno ha inserito in stagione tre spettacoli che ruotano attorno allo stesso tema: l’autismo. Chiaramente una finestra spalancata, su un argomento che ancora deve essere molto approfondito per essere liberato dai pregiudizi che vi ruotano attorno.
Per due di questi spettacoli l’Elfo è anche impegnato nella produzione: “Lo strano caso del cane uscito a mezzanotte” e “Dedalo e Icaro”, in coproduzione con Eco di Fondo. Il primo è tratto dal bestseller omonimo di Mark Haddon, e narra le vicende di un 15enne affetto da una manifestazione particolare di autismo, la sindrome di Asperger. Il secondo, in scena dal 15 gennaio al 3 febbraio, sarà parte della campagna “Mi tingo di blu”, un articolato contenitore di eventi volti alla sensibilizzazione sul tema autismo. “Il blu” spiegano dall’Elfo, “è il colore che viene scelto nel 2007 quando le Nazioni Unite decidono di istituire la giornata della consapevolezza dell’autismo. Un colore che rappresenta quello che vivono tutti i giorni i familiari: brillante come il mare in un giorno d’estate o scuro come un mare in tempesta”.
Il terzo spettacolo, di nuovo sulla sindrome di Asperger, è prodotto da una compagnia indipendente, TeatRing, con la collaborazione delle associazioni SemplicementeAspie, Spazio Asperger e Fondazione ARES, che si occupano di promuovere la corretta informazione sulla Sindrome e fornire sostegno alle famiglie in cui è presente. In questo spettacolo la diagnosi Asperger avviene in età adulta. Il protagonista dovrebbe sentirsene sollevato, perché questo giustificherebbe l’aver passato la vita a sentirsi un alieno, frainteso sempre da tutti quando non addirittura considerato una persona sgarbata o crudele. In realtà emerge una rabbia che sarebbe semplicistico etichettare come difficoltà di accettare la propria diversità. Diversità da cosa? La rabbia forse è più per doversi definire, catalogare, giustificare di fronte a un mondo neurotipico che lo vede come malato, mentre lui si sente perfettamente sano e funzionante. È che funziona in modo diverso, è tanto difficile da accettare?
La sindrome di Asperger è un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento, comparsa per la prima volta nel 1994 nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV), ma ancora oggi spesso non diagnosticata. Le persone con questa sindrome possono essere perfettamente inserite nei contesti sociali in cui lavorano, si sposano, fanno figli, ma chi li conosce bene sa di avere a che fare con dei comportamenti sociali ritenuti spesso bizzarri. Hanno un modo particolare di vivere l’affettività, di comprendere le emozioni proprie e altrui. Sono senz’altro più a proprio agio con la logica che con l’empatia. Nei soggetti adulti che hanno ricevuto una diagnosi tardiva la situazione si complica, perché spesso, forse come conseguenza dell’aver passato la vita a sentirsi “strani”, si riscontrano anche stati di depressione, attacchi di panico, carenza di autostima, problemi di ansia e iperattività. Il protagonista dello spettacolo però a un certo punto dice causticamente che detta così siamo tutti Asperger.
Per spiegare la differenza e tentare così di ricomporla, salgono sul palco alla fine dello spettacolo quattro persone che hanno ricevuto la diagnosi Asperger in età adulta: Stefano Verrigni, Claudio Sessini e Laura Damato di SemplicementeAspie, insieme a Roberto Mastropasqua. Con coraggio e delicatezza si espongono alle domande talvolta ingenuamente offensive di un pubblico che però è sinceramente interessato a capire. Come si cura? Dopo la diagnosi qual è la prognosi? È vero che non provate empatia? Come faccio a dire a un mio parente che secondo me è Asperger?
Con pazienza, consapevolezza e anche tanta ironia, spiegano che non si tratta di una malattia. Quindi non c’è una guarigione. Si tratta di una neurodiversità, ovvero processi cognitivi e neurologici diversi dai cosiddetti “normali”. Spiegano che anche se c’è una fatica a comprendere e raccontare le emozioni, questo non vuol dire che non le abbiano. Spiegano, soprattutto, che l’autismo non va generalizzato, come non ci sogneremmo mai di generalizzare un tratto somatico. “Conosciuto un autistico, hai conosciuto un autistico. Non sono tutti così”, spiega Mastropasqua. E aggiunge: “Forse la terapia più efficace devono farla le persone non autistiche, affinchè imparino a riconoscere processi di pensiero diversi, emotività diverse, capire cos’è l’autismo”.
Ecco perché siamo a teatro a parlarne. Ecco cosa accade quando il teatro non è solo intrattenimento. Queste le parole della regista Marianna Esposito: “Ho fortemente voluto questo spettacolo perché credo che il teatro debba essere utile, ed essere sempre un mezzo e non un fine. Mi interessa il teatro che svolge una funzione. Sociale, politica, morale, civile. Senza rinunciare a divertire, far sorridere, fare poesia e bellezza”.